Vivian Maier, l’enigmatica bambinaia con la Rolleiflex
Se non ricordo male, fu nel biennio 2016/17 che una serie di mostre in giro per l’Italia, da Nuoro a Lucca, a Genova, portò sulla cresta dell’onda il nome di Vivian Maier, una bambinaia di origine austro-francese vissuta negli Stati Uniti e morta qualche anno prima nel più totale anonimato. Era il 2009, quando questa donna senza fascino scompariva a ottantatre anni, lasciando dietro di sé un bagaglio enorme di materiale fotografico solo in parte sviluppato. È morta nel momento in cui la macchina fotografica stava per essere soppiantata nell’uso comune dai telefonini e gli autoritratti, che corredano una parte della sua opera, declinavano a favore dai selfie, espressione di narcisismo a basso costo e zero qualità, a cui non riesco ad abituarmi, o meglio rifiuto di abituarmi nonostante, o proprio a causa della sua estesa diffusione, una forma di democrazia dell’immagine che dice molto sull’evoluzione, o piuttosto l’involuzione del concetto di democrazia. Si tratta di una considerazione personale, certo, ma mettendo in luce la figura di una fotografa di livello quale fu Vivian Maier, il divario tra il passato prossimo e il presente non può che saltare all’occhio. All’occhio, naturalmente!, allo strumento con cui, per via diretta o mediata, osserviamo il mondo che ci sta intorno e noi stessi. Proprio Vivian Maier sembrava ossessionata da questo guardare gli altri e se stessa mai direttamente, come se qualcosa nella materia di cui è fatta l’umanità la disturbasse nel profondo, una sorta di sporcizia contaminante, da cui forse salvava solo i bambini. Ci deve essere in questo atteggiamento una ragione profonda, sepolta nel silenzio.
È naturale quindi che, non appena si parla di lei, di quella che fu una vera artista nel catturare l’attimo, venga in mente di elaborare una storia, tanto più intrigante quanta meno materia e documenti ci sono su cui fondarla. È il mestiere
dello scrittore, non del biografo.
E infatti due romanzi sono usciti pressoché in contemporanea su di lei, l’enigmatica bambinaia con la Rolleiflex al collo, che guardava la realtà abbassando gli occhi sul pozzetto della macchina. Entrambi i romanzi sono organizzati sul poco che si è potuto ricostruire intorno alla vita della Maier, trascorsa tra New York e la Provenza, tra il tempo dedicato alla cura dei bambini e quello speso nei tanti viaggi per il mondo, un’estranea occupata a immobilizzare frammenti delle vite altrui nelle fotografie dedicate per lo più a soggetti sconosciuti, in transito casuale davanti al suo obiettivo, foto accatastate verrebbe da dire senza metodo, senza ragione. Forse nemmeno più guardate. Credo che sia proprio un tale disorientante universo di immagini ad avere sollecitato la fantasia di due autrici. E, per inciso, anche questo è curioso, che siano cioè due donne da latitudini lontane, una danese, Christina Hesselholdt, e un’italiana, Francesca Diotallevi, ad aver voluto entrare, usando chiavi diverse, nel sancta sanctorum dell’artista, cercando di ricostruire quello che non è mai troppo esplicito nelle sue fotografie, nemmeno quando ad esserne il soggetto è lei, vista dal suo stesso obiettivo riflessa in una vetrina o nello specchio che un facchino sta trasportando. Chiavi diverse per aprire una porta in realtà non ermeticamente serrata: un artista lascia sempre uno spiraglio; così segni diffusi e qualche elemento più leggibile sono qua e là reperibili nel percorso della vita della Maier, per esempio nessun legame sentimentale, una rigorosa difesa della privatezza e il bisogno di portare con sé il peso, fisico, del suo passato, raccolto in scatoloni pieni di foto, rullini e giornali.
Cosa nascondevano queste ossessioni è la domanda cui le due autrici Hesselholdt e Diotallevi hanno tentato di dare una risposta. Mentre la Maier coglieva le espressioni della gente, senza fare una scelta di ambiti sociali, muovendosi ovunque, le due autrici lavorano dentro una cornice narrativa che cerca di cogliere una traccia dietro cui incamminarsi alla ricerca non tanto di una spiegazione, quanto di un’atmosfera. E veniamo al lavoro della danese Hesselholdt: può essere effetto di una suggestione, ma a me è parso di sentire nel metodo e nello stile del suo romanzo il clic di una macchina fotografica, quel rumore secco e preciso che scandisce
l’aprirsi e chiudersi dell’otturatore. C’è la presenza esplicita dello sguardo dell’autrice su quel che sta cogliendo del personaggio e dei tanti che le hanno fatto da
cornice e controcanto, un occhio che
tenta di essere oggettivo come quello della Rolleiflex, ma lo sappiamo che nessun fotografo, neanche il più maldestro, è oggettivo! mentre la Hesselholdt è tutt’altro che maldestra nel maneggiare la materia che ha tra le mani, e il suo romanzo interlocutorio, fatto di cento vo
ci, costruisce una plausibile impalcatura a reggere l’enigma di Vivian Maier. I tanti occhi che la osservano, da
quelli dei bambini a quelli della madre, del fratello segnato da un profondo disagio psichico, dei suoi datori di lavoro compongono il puzzle possibile della sua vita. Quello stesso che, per un percorso più tradizionale, compone Francesca Diotallevi, anche lei stregata dallo sguardo tagliente della fotografa, e decisa ad addentrarsi in questo sguardo, per inventare un personaggio che si possa accostare alla vera Vivian e alla sua singolare vita. In fondo ogni invenzione letteraria, anche quella di madame Bovary per Flaubert, nasce da uno spunto reale, da una storia che qualcuno ha per caso raccontato, da un’occhiata colta di sfuggita ignorandone la ragione, ed è quella che ha messo in moto il meccanismo del racconto, la voglia di muovere un’immagine, darle un prima e un dopo. La fotografia coglie l’attimo e lo congela in una sorta di eternità, il romanzo prova a sciogliere quel gelo e ritrovare lo scorrere del tempo e delle cose. Un personaggio, nel romanzo della Diotallevi, fa un’osservazione acuta sulla Maier, dice di lei che è una in cerca di storie da raccontare. È interessante che il personaggio in questione sia uno scrittore.