Il fondamento sacro della convivenza umana
Dare identità ai migranti morti è la battaglia di Cristina Cattaneo
Consideriamo i morti, i loro corpi, i loro resti. Non i vivi, almeno non ancora. Non parliamo di quelli che attraversano il deserto stipati nelle jeep, che si muovono a piedi, che si trovano rinchiusi dentro le carceri libiche in attesa di una qualunque imbarcazione e che, alla fine, arrivano sulle coste europee.
Partiamo piuttosto dai reperti, dalle tracce umane, seguendo le impronte dei denti, il rilievo dei nei, l’inchiostro penetrato nella pelle a formare parole e disegni. E, poi, gli oggetti: la pagella ben protetta nella plastica, le magliette delle squadre di calcio europee, i telefonini, gli auricolari, le tshirt con gli eroi dei fumetti, e ancora orologi, diari, lettere, fotografie. Quegli stessi oggetti contenuti negli zaini dei ragazzi di tutto il mondo, i sentimenti che suscitano perché testimoniano dell’ultima scelta fatta (cosa porto con me e cosa lascio?) e raccontano di desideri e di paure. Il libro di Cristina Cattaneo, Naufraghi senza volto, appena pubblicato da Cortina, narra di una «causa ignota e impopolare», una conquista del nostro Paese dal punto di vista scientifico e umano. L’autrice è medico legale e direttrice del Labanof di Milano, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, da sempre impegnata nel tentativo di dare identità ai tanti morti senza nome che ogni anno transitano negli istituti di medicina legale. Giovani scappati di casa, senzatetto uccisi dall’ennesimo inverno per strada, cadaveri di uomini seppelliti in anfratti profondi a seguito di vendette criminali. Fino a pochi anni fa non esisteva in Italia un archivio in grado di incrociare i dati fisici e genetici delle persone scomparse con i corpi anonimi rinvenuti. Una lacuna conosciuta solo dagli addetti ai lavori. L’ufficio del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, ora diretto dal prefetto Mario Papa, nasce nel 2007, ma la storia raccontata nel libro inizia il 3 ottobre del 2013, giorno del naufragio al largo delle coste di Lampedusa in cui persero la vita 366 migranti. Quella tragedia fu il primo banco di prova per formulare una domanda essenziale: è un dovere civile, un obbligo morale, un atto umanitario la volontà di identificare i migranti annegati nel Mediterraneo? L’autrice ci ricorda che dal 2001 a oggi, in quel tratto di mare, sono morte almeno 30mila persone e le procedure di identificazione per i corpi recuperati (una piccola percentuale degli annegati e degli scomparsi) si sono in genere esaurite in un sommario esame esterno e in una veloce sepoltura sotto una lapide priva di tutto se non di un codice e della data di morte.
A quella domanda il nostro Paese oggi risponde, unico in Europa, con scarse risorse e senza una legge che lo imponga: ma nella consapevolezza che esista una sorta di “diritto naturale” a venire riconosciuti con un nome e un cognome anche dopo la morte e, per chi resta, a poter ritrovare i propri cari e il loro luogo di sepoltura. ll progetto prende consistenza, si affinano le tecniche e si perfeziona la metodologia, mentre alla sciagura del 2013 se ne sommano molte altre: come quella dell’aprile 2015 (circa 800 morti), quando l’Italia organizza la più grande operazione mai tentata di recupero di un relitto e di identificazione delle vittime. «Come se si trattasse di un aereo di linea precipitato nell’oceano»: insomma, viene da dire, come se per una volta i morti dei barconi avessero la stessa dignità dei nostri.
Pensare ai loro morti come nostri, ecco cos’è stata - dal punto di vista politico ed etico - quella operazione di recupero e di identificazione.
Un anno fa, a soli 40 anni, moriva Alessandro Leogrande, del cui lavoro di scrittore e ricercatore si trovano molte tracce in questo libro. L’autrice ricorda la tragedia della Kater i rades, un’imbarcazione albanese che, nel tentativo di attraversare il canale d’Otranto, venne speronata da una corvetta della nostra marina militare. Era il 1997 e la stessa Cattaneo aiutò i suoi colleghi di Bari a eseguire le autopsie sui corpi delle 81 vittime del naufragio. Leogrande nel suo La frontiera scrisse di un giovane uomo, Syoum, che si batteva al fianco dei familiari delle vittime affinché fosse il Labanof - quel laboratorio di Milano - a occuparsi delle identificazioni. E quindi rivelava una sua fantasia: «Penso a decine di persone, ognuna delle quali è seduta davanti al tavolo della cucina di casa. Ognuna di loro si taglia meticolosamente le unghie con una tronchesina, le ammonticchia, poi le raccoglie con un foglio di carta e le versa con estrema attenzione in una bustina di plastica trasparente. Quella è la prova. L’unica prova che permette di ristabilire un flebile legame con i parenti scomparsi in mezzo al Mediterraneo».
Un ponte tra i vivi e i morti. La Cattaneo non lo scrive mai questione di carattere o deontologia professionale - ma come non ricordare che la devozione verso i morti, la ricerca ininterrotta di una tomba, l’identificazione di un corpo in un campo di cadaveri costituiscono altrettanti atti religiosi? Il riconoscimento, cioè, che “la compresenza” tra i vivi e i morti, di cui scrisse Aldo Capitini, rappresenti un fondamento sacro della convivenza umana.
NAUFRAGHI SENZA VOLTO
Cristina Cattaneo
Marsilio, Venezia, pagg. 198, € 14
L’autrice è medico legale. Dal 2001 sono 30mila le persone morte nel Mediterraneo