Come si è evoluta la vita del notista politico
La stampa parlamentare tra gossip, caminetti e patti vari...
«Un giornalista politico, nel nostro Paese, può contare su circa millecinquecento lettori». Sono trascorsi quasi sessant’anni da quando Enzo Forcella (1921-99) pubblicò su «Tempo Presente» un’amara riflessione sul proprio mestiere. All’epoca spadroneggiava ancora il cosiddetto «pastone» quotidiano, un po’ commento e un po’ cronaca degli avvenimenti, letto da ministri e sottosegretari, parlamentari (non tutti), dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale: «Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie». Chiunque osasse discostarsi da questo genere paludato e autoreferenziale, rischiava di bruciarsi. Come era accaduto proprio a Forcella, costretto ad abbandonare la «Stampa» di Giulio De Benedetti perché in alcuni articoli s’era mostrato cautamente favorevole al centrosinistra.
Per documentare quanto sia mutata quella che è anche la sua professione, Giorgio Giovannetti ha raccolto in un volume quindici brillanti interviste ad altrettanti colleghi. Il primo è il quasi centenario Sergio Lepri, coetaneo di Forcella e direttore dell’Ansa per quasi un trentennio, il quale narrai proprie sordi, dapprima alla« Nazione del Popolo» di Firenze, organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, e poi al« Giornale del Mattino », diretto da Ettore Berna bei e fiancheggiato redi Giorgio La Pira. L’ ultimo intervistato è il più giovane di tutti, Mario Ajello, laurea in Storia moderna e firma del «Messaggero», che chiosa Un marziano a Roma, celebre farsa di Ennio F lai ano del ’54: fondamentale per capire perché la città eternasi a tuttora in grado di fagocitare anche i più accaniti alfieri del «cambiamento», oggi come ieri.
Quali lezioni trarre da questo tomo? Primo. Il mestiere del notista politico è senz’altro cambiato, spesso in meglio, ma non sempre. Benemerito lo sguardo precursore di un Guido Quaranta, «squalo del Transatlantico» capace di cogliere gli inquilini del «Palazzo» fuori dalla loro ufficialità. O di un Giampaolo Pansa (qui assente), i cui dissacranti «bestiari» hanno rinnovato il modo di raccontare il potere italiano. E tuttavia, soprattutto dopo il 1994, l’ansia di andare oltre il palcoscenico ha spinto diverse penne a privilegiare il «retroscena», un approccio in cui verità, gossip e «fattoidi» si alternano a ruota libera.
Secondo. Pur con tutte le sue distorsioni,l’ età aurea del giornalismo politico coincide con la prima repubblica, contraddistinta dalla centralità del Parlamento.In Transatlantico, scrive Giovannetti ,« era possibile individuare, registrare e talvolta anticipare fibrillazioni, crisi, nuove alleanze». Una manna, per i cronisti più avvertiti. Poi sopraggiungeranno i salotti televisivi, i caminetti, i patti della crostata e del Nazareno.
Terzo. I giornalisti, almeno quelli più preparati, si confermano «storici del presente ». Si leggano, qui, le considerazionidi Massimo Franco sulla Dc( incarnazione del« potere collegiale, diffuso, parcellizzato»), di Paolo Franchi sulla togliattiana «via italiana al socialismo», di Ugo Magri sull’Italia laica di matrice risorgimentale( una minoranza pressoché scomparsa dopo il 1994), di Stefano Folli sulla transizione infinita verso la seconda repubblica (in realtà mai nata), di Sandra Bonsanti sulla P 2 e di Francesco D amato sul« tornado di Tangentopoli ». Si troveranno spunti, analisi e interpretazioni utilissime anche per gli storici di professione.