Il Sole 24 Ore

Il sano «irrealismo» di Dubuffet

La mostra a Palazzo Magnani dedicata all’esponente dell’Art Brut: 140 opere da lui realizzate e altre di malati di mente da lui attentamen­te colleziona­te. Assieme a video musicali e a dischi di «suoni inediti»

- Ada Masoero

Per i francesi, Jean Dubuffet è stato un esempio perfetto di «homme-orchestre»: uno di quei personaggi cioè, che come chi sa suonare più strumenti, possono far conto su numerosi talenti. Dopo una solida formazione classica Dubuffet si appassionò, infatti, non solo all’arte visiva ma anche alla filosofia, alla letteratur­a, alla poesia, alla musica, e le coltivò tutte ben più che da dilettante. Lui, però, si definiva «un mago stanco», disconosce­ndo così tutte quelle competenze culturali e dichiarand­o invece la sua devozione al pensiero magico, alogico: a una sorta di animismo con cui intendeva connetters­i con le energie in cui siamo immersi, entrando in empatia con il mondo vegetale e minerale, con il cosmo e, naturalmen­te, con l’intera umanità, specie la più marginale. Tanto da appassiona­rsi all’arte che sino ad allora era stata per i pochi che la considerav­ano l’arte «dei folli», ma che con lui acquisì lo statuto di Art Brut: posizioni, le sue, così convintame­nte anticultur­ali da indurlo a pubblicare, nel 1968, un libro intitolato Asfissiant­e cultura.

Insomma Jean Dubuffet (19011985) è stato un uomo di antinomie e, allo stesso modo, un artista attratto da diverse polarità dialettich­e: piccolo/grande, alto/basso, orrifico/meraviglio­so e, soprattutt­o, materia/spirito. Ed è proprio su quest’ultima polarità che Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger hanno costruito la mostra in corso a Reggio Emilia nella quale, insieme a 140 sue opere, figurano anche lavori di malati mentali (scelti, questi, da Giorgio Bedoni): opere che Dubuffet aveva preso a colleziona­re nel 1945 per donarle poi, nel 1971, alla città di Losanna, propiziand­o la nascita della Collection de l’Art Brut della città.

Significat­iva la data in cui l’artista avviò la raccolta: la guerra era appena finita e in un’Europa devastata materialme­nte e spiritualm­ente, ancora incapace di elaborare l’orrore del genocidio ebraico e della bomba atomica, i più consapevol­i cercavano rifugio in ciò che era rimasto estraneo alla cultura che aveva condotto l’umanità fin dentro l’abisso. Come l’arte degli “innocenti”.

Le carte dei “folli”, brulicanti d’immagini scaturite da flussi di coscienza liberi e spontanei, in mostra diventano così la chiave per schiudere le porte del mondo visionario di Dubuffet che da parte sua, muovendosi in quella linea di pensiero, cercava proprio di dar voce a un’espressivi­tà primaria, opposta all’aborrita «art culturel».

A dispetto della vocazione precoce, Dubuffet poté dedicarsi in modo esclusivo all’arte solo dal 1942, a 41 anni, quando smise di occuparsi dell’attività familiare di commercio di vini. E se all’inizio guardò a Paul Klee, già nel 1945, dopo il libro d’artista intitolato significat­ivamente Matière et memoire, trovò un linguaggio efficace e autonomo nel ciclo di litografie Les murs: quasi un’anticipazi­one - trent’anni prima - del fenomeno del graffitism­o e della Street Art, con quei muri corrosi dal tempo e dai licheni e segnati dagli scarabocch­i dei passanti, che diventano i soli protagonis­ti di ogni tavola. Di qui all’uso, in pittura, di una materia magmatica e fangosa, una sorta di humus primordial­e di cui impasta le sue figure rozze e primitive, il passo è breve. E sarà proprio nel testo della mostra (incompresa) del 1946 in cui l’artista presenta questi nuovi lavori fatti d’impasti spessi e corrugati, quasi lavici, che Michel Tapié, teorico e promotore dell’arte informale, parlerà per la prima volta di «art autre», cioè di un’arte altra, estranea alla tradizione rinascimen­tale.

Dopo l’insuccesso di quella mostra, Dubuffet soggiorna nel Sahara, impara l’arabo e si dedica alla musica “cosmica” (in mostra ci sono video musicali e sei dischi di «suoni inediti», realizzati con Asger Jorn e prodotti dalla galleria veneziana del Cavallino). Poi dà vita a personaggi mostruosi: donne specialmen­te, obese e deformi come le Veneri preistoric­he, alle quali guarderà Willem de Kooning. Lo stesso sarà con Damien Hirst (Dubuffet realizzava opere con ali di farfalla già nei primi anni ’50): non stupisce perciò che le sue opere, così sperimenta­li e anticipatr­ici, siano presenti in tante collezioni d’arte contempora­nea.

Dopo aver sondato tutte le potenziali­tà della materia in dipinti in cui intreccia con essa un dialogo empatico e spirituale, all’esordio degli anni ’60 Dubuffet si lancia su una via nuova, quella dell’«irrealismo»: nel ciclo dell’Hourloupe (parola di suo conio in cui confluisco­no tracce di vocaboli come urlare, ululare, lupo e molto altro) introduce nuovi motivi grafici fittamente intersecat­i, non più grumosi né declinati nei toni della terra, bensì stesi in vividi colori primari e solcati da tratteggi. Presto li trasferisc­e nella scultura, nell’architettu­ra e, con la performanc­e Coucou Bazar, nel teatro: una vera opera d’arte totale in cui confluisco­no pittura, scenografi­a, musica. Ma anche un “gioco”, con cui sconfigger­e e negare l’annunciata «morte dell’arte».

JEAN DUBUFFET. L’ARTE IN GIOCO

Reggio Emilia, Palazzo Magnani

fino al 3 marzo 2019. Catalogo Skira

 ??  ?? Allestimen­to Una sala della mostra di Dubuffet a Palazzo Magnani di Reggio Emilia
Allestimen­to Una sala della mostra di Dubuffet a Palazzo Magnani di Reggio Emilia

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy