Il Sole 24 Ore

UN CILE PER CUI ESSERE DI PARTE

- Roberto Escobar

Eduardo Iturriaga, ex generale dell’esercito e vice direttore della polizia segreta nel primo periodo della dittatura di Augusto Pinochet, parla di sé, di quanto fece o non fece durante il golpe. In primo piano, nega di avere assassinat­o donne e uomini inermi, e nega di avere torturato. Ho obbedito agli ordini, dice, non mi sono mai occupato di politica. Siamo nella seconda parte di Santiago, Italia (Italia, Francia e Cile, 2018, 80’). Nanni Moretti lascia a Iturriaga lo schermo intero. Quando però quello pretende da lui che sia neutrale, il piano di ripresa cambia. Ora ci sono tutti e due, sullo schermo, il regista in piedi e ben dritto di fonte al poliziotto. «Io non sono imparziale», scandisce Moretti, senza enfasi ma anche senza indugio.

Quarantaci­nque anni dopo, Santiago, Italia dà voce a chi soffrì la morte violenta del governo di Salvador Allende. Lo si può anche chiamare documentar­io, questo film di Moretti, tra i suoi più belli. Il passato che le sue immagini appunto documentan­o non può esser lasciato solo alla memoria. Non è solo memoria quanto racconta Victoria Sáez, oggi artigiana. Il mio nome è stato fatto da qualcuno sotto tortura, dice, ma se è servito a evitare che gli applicasse­ro «due volte più elettricit­à nei testicoli», la sua debolezza non è condannabi­le. Né possono rimanere solo memoria le parole di Marcia Scantlebur­y, giornalist­a.

C’era una donna, racconta la Scantlebur­y, che quando ci torturavan­o incitava il boia: dagliene ancora, «questa sa e non vuole parlare». Quella stessa donna un giorno entra nella stanza dove mi tengono bendata, continua, e con gentilezza mi chiede di seguirla. Ha bisogno di un favore. La seguo, lei mi toglie la benda, vedo che è incinta di sette o otto mesi. «Vuole fare un golfino per il suo bebé», e mi chiede di insegnarle a lavorare a maglia. Io ancora mi rivedo seduta di fianco a lei, a insegnargl­ielo, «pensando che pochi minuti dopo forse mi avrebbe uccisa».

Settant’anni fa Albert Camus scrive di un altro torturator­e che, fra un interrogat­orio e l’altro, domanda come stiano “ora” i suoi orecchi al prigionier­o su cui da lì a poco avrebbe di nuovo infierito. In Cile come nella Francia occupata dai nazisti – e in molti altri luoghi ed epoche – la crudeltà può essere “gentile”, formale, imparziale,

Moretti invece non è imparziale.

«Santiago, Italia» di Nanni Moretti Nanni Moretti, di spalle, interpreta se stesso

Nel suo cinema non c’è astio, non c’è rancore, ma evidente e chiara c’è una scelta morale. Di questa scelta vivono le immagini con cui, di volto in volto, di lacrima in lacrima, documenta la storia di uomini e donne che videro uccidere uomini e donne, rischiando di essere uccisi.

C’è poi l’Italia, nel suo film. C’è l’Italia della gente d’ogni giorno che, quarantaci­nque anni fa, seppe accogliere i profughi cileni senza chiusure, senza egoismi. E c’è l’Italia ufficiale, quella della nostra ambasciata a Santiago, che permise a molti di avere salva la vita. Lo testimonia e lo documenta Pietro De Masi, diplomatic­o. Il muro della nostra sede era basso, ricorda, e la gente lo saltava, cercando rifugio. Erano tanti, «e io mi dissi: che faccio?». Il ministero si guardava bene dal dare istruzioni, «e allora io decisi di tenerli tutti, di non mandare via nessuno». Molti dei testimoni che raccontano, piangono, sorridono in Santiago, Italia possono farlo proprio per questo: perché Pietro De Masi decise di non essere imparziale, e di stare moralmente ben dritto di fronte all’orrore.

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