Vita ordinaria di un mito del pallone
Francesco Totti. La mamma che gli asciuga i capelli in auto, il papà che controlla tutto. Ma soprattutto Roma, la città e la squadra. Che gli fa dire no al Real Madrid. Perché lontano da lei non c’è nulla, nemmeno da mangiare
«Tu sei uno di quei romani convinti che fuori Roma non ci sia niente da mangiare, mi dice sempre, e un po’ ha ragione». Maggio 2015. Il Real Madrid ha messo sul piatto, è il caso di dirlo, una di quelle offerte che non si possono rifiutare. La maglia numero dieci del club più prestigioso del mondo e l’ingaggio che lo avrebbe fatto diventare il calciatore più pagato del pianeta. Più di Zidane e di Figo, più di Raul e di Ronaldo il Fenomeno, il brasiliano che da lì a poco sarebbe approdato a Madrid proprio al posto di Totti nella collezione di galacticos che il presidente Florentino Perez stava completando. La Roma di Rossella Sensi, dissanguata, avrebbe bisogno di vendere per rimettere a posto i conti. Ma Francesco Totti, come aveva previsto la futura moglie, la conduttrice Ilary Blasi, dice no. Per non rinunciare all’amatriciana e alla gricia e perché non saprebbe come dirlo a mamma Fiorella. A lei che imparava le lezioni di storia in macchina mentre il figlio tredicenne si allenava e poi gliele ripeteva durante il tragitto verso casa e gli asciugava i capelli con il bocchettone dell’aria calda della 126.
Nell’autobiografia di Francesco Totti, scritta con l’opinionista di Sky Paolo Condò, c’è poca epica e molta famiglia. Non c’è la disperazione, la guasconaggine e l’irriverenza di cui trasuda il libro di memorie di Zlatan
Ibrahimovic (Io, Ibra, scritta con David Lagercrantz). Dai bassifondi di Malmö ai più grandi stadi del mondo lasciandosi dietro una periferia violenta e una famiglia dilaniata. Non ci sono le risse fuori e dentro il campo. Non c’è il riscatto. «Parliamoci chiaro: a casa mia non è mai mancato niente, tutti gli anni andavamo in vacanza e non è cosa da poco», scrive Totti per ribadire la normalità di un ragazzo cresciuto a Roma, quartiere Porta Metronia, via Vetulonia, tra le cure amorevoli di mamma Fiorella e di papà Enzo, «lo sceriffo» (perché teneva tutto sotto controllo), del fratello maggiore Riccardo e di una tribù di parenti e amici iperprotettivi. Roma, mamma e famiglia.
Non c’è neanche la lotta contro il proprio sport, contro il padre-padrone-allenatore e contro se stessi che impregna Open di Andrè Agassi. Non c’è la ribellione a nessun despota del livello del supercoach Nick Bollettieri, adolescenti rinchiusi in un collegio in Florida a fare la guerra contro regole ferree e tennis. Non c’è la caduta e la resurrezione, non c’è la perdizione nella droga e il ritorno alla vita. Neanche qualcosa che assomigli alla lotta contro gli organizzatori del Roland Garros, che ad Agassi volevano vietare la trasgressione dei completi colorati. Totti non trasgredisce. Non beve, non fuma e non si droga. Al massimo salta dal balcone di uno stage della Nazionale Under 17 con Buffon e Coco in stampelle per andare in discoteca. O gioca a scopa al centro di allenamento facendo imbufalire l’allenatore Spalletti, quello che lo accompagnerà al ritiro. C’è, in abbondanza, la normalità di un bravo ragazzo cresciuto a pane e calcio che capisce prestissimo, quando gioca a “Paperelle” (una sorta di tiro al bersaglio umano con il pallone) sulle scalinate della scuola Manzoni, di avere un talento speciale. Era lo «gnomo», il bambino Stadio in lacrime L’ultima partita di Francesco Totti all’Olimpico, il 28 maggio 2017 più piccolo, ma veniva scelto per primo nella conta per formare le squadre. Era già troppo forte.
L’eccezionalità del calciatore e la normalità dell’uomo vengono fuori nitidamente nelle circa 500 pagine del libro. Non c’è bisogno di scomodare Umberto Eco e La fenomenologia
di Mike Bongiorno. Sarebbe fuori luogo. L’Italia degli ultimi trenta anni non è quella che si alfabetizzava con la televisione negli anni Sessanta e Francesco Totti di quel Mike Bongiorno ha la popolarità ma non la missione salvifica che al conduttore derivava dall’apparire sul piccolo schermo davanti a venti milioni di italiani che andavano istruiti.
Sono nazionalpopolari entrambi, Mike e Francesco, ed entrambi gaffeur. Mike è americano finto, Totti è romano vero: romano e romanista. Si autodefinisce così, come moltissimi tifosi giallorossi. Non c’è capitolo dell’autobiografia in cui non vengano fuori l’orgoglio di essere romano e romanista e la recriminazione per il fatto che il resto del mondo glielo faccia pesare. Persino la vittoria del mondiale prende una venatura romana: l’espulsione di De Rossi accomunata allo sputo al danese Poulsen negli europei precedenti in Portogallo; Perrotta, lo stesso De Rossi e il preparatore-amico Vito Scala, i tre della Roma a Berlino, che festeggiano insieme a lui; l’enfasi sulle celebrazioni al Circo Massimo. Lo scudetto della Roma che è più importante della vittoria del Mondiale. La corazza e la dolce maledizione di Roma che gli impedisce per venti anni di andare a fare una passeggiata in via del Corso per non essere travolto dalla folla. Come la vigilia di Natale in cui si azzarda a ritirare un regalo per Ilary con il piccolo Cristian e viene sommerso da tifosi e curiosi.
Totti sulla quarta di copertina del libro ha scritto: «Che cosa devi fare per essere degno di un amore così folle, così assoluto, così esagerato?». Un amore che ha fatto piangere una città il giorno del ritiro. Carlo Verdone e Antonello Venditti, Francesco Favino e Claudio Amendola. I manager in tribuna Monte Mario e i coatti delle curve. Walter Veltroni e Maurizio Gasparri. La romanità in ogni sua sfaccettatura, anche oltre il tifo. Tutti a piangere nel giorno in cui Roma, ma in fondo anche l’Italia un po’ convertita al tottismo, capisce che tutto prima o poi finisce.
Cosa dovevi fare, Francesco? In fondo nient’altro di quello che hai voluto fare. L’ottavo re di Roma, ma rimanendo il bambino di “Paperelle”, timido e generoso, che si vergognava alle premiazioni e, matricola in prima squadra, non faceva la doccia con i veterani per pudore. Oggi, appesi gli scarpini al chiodo, da dirigente della Roma, raccogli anche gli applausi degli stadi un tempo ostili del Nord. Dalla tribuna è difficile segnare.