Fornitori nella rete delle frodi con lettere d’intento
I rischi per i contribuenti coinvolti a propria insaputa nei mancati versamenti Dai giudici impostazione rigorosa: la responsabilità scatta anche per colpa
Frodi Iva e lettere d’intento rappresentano un connubio alquanto rischioso per quei contribuenti che dovessero risultare coinvolti a loro insaputa in un illecito in qualità di fornitori. La pericolosità è collegata al fatto che, nonostante l’articolo 7, ai commi 3 e 4 del Dlgs 471/1997, limiti senza eccezioni la responsabilità del fornitore o prestatore dell’esportatore abituale che ha emesso fattura senza addebito dell’Iva al solo caso in cui lo stesso non abbia materialmente ricevuto la lettera d’intento, i verificatori procedono spesso a richiedere il tributo “evaso” a tale soggetto, con applicazione delle relative sanzioni, adducendo che lo stesso era a conoscenza della frode perpetrata o, comunque, non avesse eseguito i necessari riscontri per verificare l’affidabilità del cessionario.
Lo schema tipo
Vediamo lo schema tipico di una frode Iva incentrata sull’emissione di false lettere d’intento. Il meccanismo illecito si incentra nell’interposizione tra cedente e cessionario di un soggetto (detto, appunto, “interposto”), il quale, sfruttando la disciplina relativa all’esportatore abituale (articolo 8, comma 1, lettera c), Dpr 633/1972), acquista senza pagare l’Iva grazie all’emissione di una falsa lettera d’intento. Questo soggetto è un soggetto cartolare (missing trader) in quanto non presenta alcuna struttura d’impresa, se non minima, e non possiede beni aggredibili dall’erario. Inoltre, risulta, nella normalità dei casi, irreperibile al momento in cui la truffa viene scoperta, in quanto opera per un tempo limitato (uno o due anni massimo) per poi scomparire, non istituendo la contabilità e non presentando dichiarazioni. L’interposto fattura poi al vero acquirente a un prezzo maggiorato, rispetto all’acquisto, del proprio compenso, applicando sulla vendita l’Iva che concretamente non fa pagare e che, a sua volta, non versa. L’ultimo acquirente detrae l’Iva pagata, ma non assolta, e grazie a ciò può applicare un prezzo di vendita più concorrenziale non avendo necessità di profitti ulteriori.
L’anello debole
Dall’esame dello schema è facile comprendere come il fornitore sia, per l’amministrazione finanziaria, il soggetto più semplice (e solvibile) da individuare e a cui richiedere il pagamento dell’Iva non applicata e delle relative sanzioni. Anche quando quest’ultimo sia stato tratto in inganno da lettere d’intento false emesse dall’interposto e sebbene la norma disponga esplicitamente che, in questo caso, l’unico responsabile è l’emittente. Per far ciò, secondo i verificatori, non è necessario palesare la partecipazione diretta e consapevole del fornitore alla frode, essendo sufficiente dimostrare, anche attraverso prove indiziarie, che lo stesso non abbia tenuto un comportamento diligente nell’individuare “segnali” di anomalia imprenditoriale del cessionario.
L’orientamento dei giudici
La giurisprudenza, in particolare della Cassazione, sembra accogliere questo orientamento. La Suprema corte, infatti, tra le altre con sentenza 14936/2018 ha, evidenziato come, in base ormai a un orientamento consolidato, la non imponibilità delle cessioni effettuate nei confronti di esportatori abituali non possa essere subordinata al solo dato formale dell’invio della dichiarazione d’intento, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo che il cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta. In sostanza, per la Cassazione il contribuente è chiamato a dimostrare di «non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere».
Quindi, il fornitore sarebbe responsabile dell’Iva non solamente, come prevede il legislatore, nell’esclusiva ipotesi di mancanza della lettera d’intento, e nemmeno in quella di partecipazione dolosa all’illecito (attivo coinvolgimento nella frode), ma anche per ipotesi squisitamente colpose, nel caso in cui cioè egli non abbia posto in essere le verifiche per accertare la reale natura del cliente. Tale orientamento “sostanzialista” risulta disallineato con quanto stabilito dalla normativa, la quale, in maniera molto chiara, non solo individua l’unica ipotesi in cui il fornitore sarebbe responsabile, ma anche obbliga, dal 2015, il cessionario a trasmettere preventivamente la dichiarazione d’intento all’agenzia delle Entrate e a trasmettere la ricevuta al fornitore insieme alla lettera d’intento. Ne consegue che le verifiche che gli uffici e la giurisprudenza ribaltano sul contribuente ben potrebbero (e dovrebbero) essere svolte dalle Entrate in modo molto più efficace e veloce.
La posizione delle Entrate
Tuttavia, come risulta dalla risposta data il 10 ottobre scorso dal sottosegretario alle Finanze all’interrogazione parlamentare n. 5-00653, l’Agenzia sta ancora implementando i sistemi per effettuare i controlli necessari affinché, prima di rilasciare la ricevuta di avvenuta presentazione della dichiarazione, il contribuente sia in grado di accertare lo status di esportatore abituale. Come dire: l’obbligo telematico esiste da anni ma del suo concreto sfruttamento in ottica antievasiva è ancora lecito nutrire più di un dubbio, essendo più semplice ricorrere “sul campo” alle presunzioni ed all’inversione dell’onere della prova.