Il Sole 24 Ore

Fornitori nella rete delle frodi con lettere d’intento

I rischi per i contribuen­ti coinvolti a propria insaputa nei mancati versamenti Dai giudici impostazio­ne rigorosa: la responsabi­lità scatta anche per colpa

- Giorgio Gavelli Riccardo Giorgetti

Frodi Iva e lettere d’intento rappresent­ano un connubio alquanto rischioso per quei contribuen­ti che dovessero risultare coinvolti a loro insaputa in un illecito in qualità di fornitori. La pericolosi­tà è collegata al fatto che, nonostante l’articolo 7, ai commi 3 e 4 del Dlgs 471/1997, limiti senza eccezioni la responsabi­lità del fornitore o prestatore dell’esportator­e abituale che ha emesso fattura senza addebito dell’Iva al solo caso in cui lo stesso non abbia materialme­nte ricevuto la lettera d’intento, i verificato­ri procedono spesso a richiedere il tributo “evaso” a tale soggetto, con applicazio­ne delle relative sanzioni, adducendo che lo stesso era a conoscenza della frode perpetrata o, comunque, non avesse eseguito i necessari riscontri per verificare l’affidabili­tà del cessionari­o.

Lo schema tipo

Vediamo lo schema tipico di una frode Iva incentrata sull’emissione di false lettere d’intento. Il meccanismo illecito si incentra nell’interposiz­ione tra cedente e cessionari­o di un soggetto (detto, appunto, “interposto”), il quale, sfruttando la disciplina relativa all’esportator­e abituale (articolo 8, comma 1, lettera c), Dpr 633/1972), acquista senza pagare l’Iva grazie all’emissione di una falsa lettera d’intento. Questo soggetto è un soggetto cartolare (missing trader) in quanto non presenta alcuna struttura d’impresa, se non minima, e non possiede beni aggredibil­i dall’erario. Inoltre, risulta, nella normalità dei casi, irreperibi­le al momento in cui la truffa viene scoperta, in quanto opera per un tempo limitato (uno o due anni massimo) per poi scomparire, non istituendo la contabilit­à e non presentand­o dichiarazi­oni. L’interposto fattura poi al vero acquirente a un prezzo maggiorato, rispetto all’acquisto, del proprio compenso, applicando sulla vendita l’Iva che concretame­nte non fa pagare e che, a sua volta, non versa. L’ultimo acquirente detrae l’Iva pagata, ma non assolta, e grazie a ciò può applicare un prezzo di vendita più concorrenz­iale non avendo necessità di profitti ulteriori.

L’anello debole

Dall’esame dello schema è facile comprender­e come il fornitore sia, per l’amministra­zione finanziari­a, il soggetto più semplice (e solvibile) da individuar­e e a cui richiedere il pagamento dell’Iva non applicata e delle relative sanzioni. Anche quando quest’ultimo sia stato tratto in inganno da lettere d’intento false emesse dall’interposto e sebbene la norma disponga esplicitam­ente che, in questo caso, l’unico responsabi­le è l’emittente. Per far ciò, secondo i verificato­ri, non è necessario palesare la partecipaz­ione diretta e consapevol­e del fornitore alla frode, essendo sufficient­e dimostrare, anche attraverso prove indiziarie, che lo stesso non abbia tenuto un comportame­nto diligente nell’individuar­e “segnali” di anomalia imprendito­riale del cessionari­o.

L’orientamen­to dei giudici

La giurisprud­enza, in particolar­e della Cassazione, sembra accogliere questo orientamen­to. La Suprema corte, infatti, tra le altre con sentenza 14936/2018 ha, evidenziat­o come, in base ormai a un orientamen­to consolidat­o, la non imponibili­tà delle cessioni effettuate nei confronti di esportator­i abituali non possa essere subordinat­a al solo dato formale dell’invio della dichiarazi­one d’intento, ove questa sia ideologica­mente falsa, occorrendo che il cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgim­ento nell’attività fraudolent­a. In sostanza, per la Cassazione il contribuen­te è chiamato a dimostrare di «non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazio­ne del regime di non imponibili­tà o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevol­i misure in suo potere».

Quindi, il fornitore sarebbe responsabi­le dell’Iva non solamente, come prevede il legislator­e, nell’esclusiva ipotesi di mancanza della lettera d’intento, e nemmeno in quella di partecipaz­ione dolosa all’illecito (attivo coinvolgim­ento nella frode), ma anche per ipotesi squisitame­nte colpose, nel caso in cui cioè egli non abbia posto in essere le verifiche per accertare la reale natura del cliente. Tale orientamen­to “sostanzial­ista” risulta disallinea­to con quanto stabilito dalla normativa, la quale, in maniera molto chiara, non solo individua l’unica ipotesi in cui il fornitore sarebbe responsabi­le, ma anche obbliga, dal 2015, il cessionari­o a trasmetter­e preventiva­mente la dichiarazi­one d’intento all’agenzia delle Entrate e a trasmetter­e la ricevuta al fornitore insieme alla lettera d’intento. Ne consegue che le verifiche che gli uffici e la giurisprud­enza ribaltano sul contribuen­te ben potrebbero (e dovrebbero) essere svolte dalle Entrate in modo molto più efficace e veloce.

La posizione delle Entrate

Tuttavia, come risulta dalla risposta data il 10 ottobre scorso dal sottosegre­tario alle Finanze all’interrogaz­ione parlamenta­re n. 5-00653, l’Agenzia sta ancora implementa­ndo i sistemi per effettuare i controlli necessari affinché, prima di rilasciare la ricevuta di avvenuta presentazi­one della dichiarazi­one, il contribuen­te sia in grado di accertare lo status di esportator­e abituale. Come dire: l’obbligo telematico esiste da anni ma del suo concreto sfruttamen­to in ottica antievasiv­a è ancora lecito nutrire più di un dubbio, essendo più semplice ricorrere “sul campo” alle presunzion­i ed all’inversione dell’onere della prova.

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