Orsi, tori e Tweet: sul 2019 dei mercati la visibilità è zero
Dal cinguettio di Trump che ha rimesso in moto l’ottimismo sui rapporti Usa-Cina alle stime dissonanti sulla congiuntura del nuovo anno: ecco perché le Borse oscillano
Se fino a due giorni fa i mercati assistevano terrorizzati alle altalenanti trattative commerciali tra Cina e Stati Uniti, ieri è bastato un Tweet di Donald Trump per cambiare l’umore. «Conversazioni produttive con la Cina - ha scritto il Presidente Usa -. Aspettatevi importanti annunci». Così le Borse, anche grazie a un’apertura da parte cinese sullo stesso tema, sono rimbalzate. Ma l’effetto del Tweet è durato giusto il tempo di un Tweet: in poche ore è svanito e Wall Street è tornata in preda alla debolezza. Perché è questa la realtà in cui si muovono gli investitori ormai da mesi: l’altalena perpetua delle Borse, l’incertezza globale, la scarsa visibilità. Tra un Tweet e l’altro, tra una crisi geopolitica e l’altra, anche i mercati finanziari - per anni drogati dall’ottimismo profuso dalle banche centrali - non sanno più dove andare.
Il virus dell’incertezza perpetua non colpisce solo la finanza. Ma anche l’economia. Quest’anno è infatti difficile trovare sugli stessi temi due previsioni coincidenti. Tra gli economisti c’è chi si preoccupa per il debito delle aziende americane, temendo qui l’origine della prossima crisi. Ma c’è anche chi non vede alcun pericolo. C’è chi guarda con apprensione all’inversione della curva dei rendimenti Usa, perché in passato è stato presagio di recessione. Ma c’è anche chi non vede alcuna sinistra premonizione. E così via su mille temi: nelle previsioni sul 2019 degli istituti di ricerca si legge tutto e il contrario di tutto. Siamo passati dall’ottimismo globale monocromatico degli anni passati, a 100 sfumature di grigio. Questo contribuisce a disorientare i mercati finanziari.
Oscuro presagio?
Uno dei temi che più divide gli esperti è la cosiddetta curva dei rendimenti statunitense. In un mondo normale, la curva deve avere un’inclinazione positiva: questo significa che i titoli di Stato a lungo termine devono offrire un rendimento più elevato rispetto a quelli a breve termine, perché il fattore tempo rappresenta un rischio da remunerare. Capita però che la curva dei rendimenti si appiattisca o addirittura si inverta: negli Usa (dove non c’è alcun rischio di default) questo accade quando la banca centrale alza i tassi d’interesse nel breve, ma il mercato teme recessioni (dunque tassi più bassi) in futuro. Infatti in passato l’inversione è stata il preludio di recessioni economiche. Per questo tutti guardano la curva dei rendimenti Usa come una sorta di Sibilla Cumana. La domanda che tutti si pongono oggi, con la curva Usa molto piatta e per certi tratti invertita, è dunque ovvia: anche questa volta è un presagio di recessione?
A questa domanda gli economisti danno le più varie risposte. Tanti lo temono. Per esempio la Fed di St Louis, che in un grafico mostra proprio questo: tutte le recessioni del passato sono state “preannunciate” dall’inversione della curva dei tassi. Anche gli economisti di Capital Economics hanno lo stesso timore: «La storia suggerisce che quando la curva diventa piatta o si inverte il mercato azionario inizia a soffrire negli anni successivi e l’economia inizia a indebolirsi. Noi pensiamo che l’economia Usa rallenterà violentemente tra non molto». Diametralmente opposto l’ottimismo di John Greenwood, chief economist di Invesco: è vero che tutte le recessioni negli Stati Uniti sono state anticipate da questo fenomeno - sostiene -, ma non è vero che tutte le volte in cui la curva dei rendimenti si è invertita poi c’è stata una recessione. Nel mezzo sta la previsione di Citigroup: «L’attuale curva segnala una probabilità del 21,5% che l’economia Usa cada in recessione - scrivono i suoi economisti - ma altri indicatori danno segnali opposti». Gli aruspici non riescono a dare una riposta. E in pochi credono davvero che nel 2019 gli Usa finiranno in recessione.
Il fardello del debito
Altro tema che divide, guardando al 2019, è il livello di pericolosità del debito delle aziende statunitensi. Il grido d’allarme forse più autorevole arriva dal Financial Stability Report della Fed, che mostra grafici preoccupanti. Ma anche un recente report di Goldman Sachs mostra come il debito delle aziende non finanziarie Usa sia passato da poco più di 6mila miliardi di dollari nel 2011 a 9mila miliardi. Sebbene - segnala Goldman - ci siano fattori che mitigano il rischio, questi numeri fanno paura a molti. E, soprattutto, fanno paura i debiti espressi in obbligazioni. Anche Janet Yellen, ex presidente Fed, ieri ha parlato di «giganteschi buchi nel sistema». Riferendosi proprio al mondo dei leverage loans e dei debiti aziendali. «L’aumento dei tassi mette in significativo rischio le famiglie e le imprese nel 36% delle economie globali», rincara la dose Citigroup.
Ma ci sono anche economisti per nulla preoccupati. Che non guardano con apprensione al mercato dei bond aziendali Usa, né tantomeno la sua illiquidità. «In rapporto al Pil - osserva Greenwood di Invesco - il debito delle aziende Usa non è su livelli preoccupanti». Dunque a suo avviso i timori sono infondati. E tanti la pensano come lui. Con 100 sfumature di grigio. Perché questa è la realtà con cui gli investitori si affacciano al 2019: con l’incertezza su politica, economia e mercati. Forse la previsione più onesta che si possa fare è una sola: chissà.