TRE PUNTI PER UNA MANOVRA CON I CONTI IN ORDINE
Tre punti e una conclusione.
1. Se ci fosse una opposizione avrebbe il diritto di criticare la manovra di bilancio del governo per la quantità, la qualità e i suoi effetti sull’economia e sui conti pubblici.
Direbbe allora che la quantità è minuscola e la qualità pessima. La quantità della manovra è pari al 2% del totale della spesa e all’1% del Pil.
Ci si limita infatti ad aumentare la spesa pubblica di 20 miliardi (reddito di cittadinanza e quota 100) lasciando intonsi i circa 850 miliardi ereditati da tutti i precedenti governi. Il totale delle tasse, oggi pari a circa 815 miliardi, resta pressoché identico all’andamento tendenziale a legislazione vigente e, pur evitando l’aumento dell’Iva, aumenta di 80 miliardi nel triennio.
La qualità è pessima perché si tratta di un aumento di spesa corrente per trasferimenti fatto tutto in deficit.
Con una manovra pari all’1% del Pil gli effetti sulla crescita non possono che essere modesti ed effimeri. È come sperare di far correre un Tir con il motore di un Fiat 500 prendendo a debito pochi litri di benzina.
Per di più il commercio mondiale sta rallentando a seguito dell’inasprirsi della guerra dei dazi e la nostra economia sta frenando. La crescita tendenziale per il 2019 è oggi stimabile a non più dello 0,6 per cento. L’obiettivo posto dal governo all’1,5% è pertanto irraggiungibile e totalmente non credibile. Il governo ha inoltre programmato una inflazione in salita verso il 2 per cento. I dati mostrano che difficilmente si andrà sopra l’1,5 per cento. Minore crescita reale e minore inflazione automaticamente portano a un Pil nominale molto più contenuto. Pertanto il deficit pubblico si attesterà attorno al 3% del Pil. Il debito pubblico passerà dagli attuali 2.300 miliardi ai 2.480 programmati dal governo al 2021 e il suo rapporto con il Pil rimarrà sopra il 130%, con una lieve tendenza a crescere e non a diminuire.
A questi “numeri” si aggiunge poi l’incognita dello scontro con la Commissione europea e delle reazioni dei mercati finanziari.
Per tutti sarebbe allora necessario porsi la seguente domanda: vale proprio la pena fare una manovra minuscola che non cambia quasi nulla e correre un così grave e incombente rischio di crisi di finanza pubblica e di recessione economica?
2.
Se ci fosse una opposizione avrebbe il dovere di proporre una manovra di bilancio alternativa precisando la quantità, la qualità e i suoi effetti sull’economia e sulla finanza pubblica.
Se si vuole sul serio spingere la crescita e l’occupazione in modo strutturale e permanente occorre una quantità pari a circa il 4-5% del Pil, cioè 80100 miliardi di euro. Più o meno come fece il governo Amato nel 1992 a fronte di una gravissima crisi della lira e il governo Prodi nel 1997 per entrare nell’euro. Questa volta si tratterebbe di non uscire dall’euro ed evitare il baratro di un autolesionistico nazionalismo economico, finanziario, valutario con conseguente isolamento europeo e internazionale.
È evidente che una manovra di queste dimensioni non può essere fatta in deficit. Si deve allora partire dalle coperture. Una mirata spending
review può dare un potenziale di risorse in due specifiche voci di spesa (acquisti e fondi perduti) per circa 60 miliardi. Una seria revisione delle tax
expenditure potrebbe liberare altri 40 miliardi. Assegnando 20 miliardi alla eliminazione totale e definitiva delle clausole di salvaguardia, i restanti 80 miliardi potrebbero essere usati per 40 miliardi di sgravi Irpef sui redditi medio-bassi, per 20 miliardi di riduzione del cuneo fiscale con azzeramento dell’Irap e per 20 miliardi in più di investimenti pubblici.
Gli effetti sull’economia sarebbero di una crescita sopra il 2% e una disoccupazione sotto l’8%, con più equità e coesione sociale.
Il deficit pubblico si azzererebbe in due anni. Il debito pubblico scenderebbe di oltre il 4% all’anno rispetto al Pil.
3.
Se ci fosse una maggioranza responsabile ascolterebbe la proposta dell’opposizione, prenderebbe come buoni i suggerimenti di coperture magari però per realizzare pienamente le “sue” proposte (reddito di cittadinanza, quota 100 e flat tax alla quale ha rinunciato). In questo caso però la crescita sarebbe all’1% invece che al 2% e la disoccupazione scenderebbe più lentamente. Ma anche in questo caso sarebbe garantito l’equilibrio dei conti pubblici.
Per tutto questo però maggioranza e opposizione dovrebbero avere un orizzonte temporale di quattro o cinque anni. Con un orizzonte a sei mesi ci troviamo con questa maggioranza e pressoché senza opposizione e forse ce le siamo meritate entrambe. La prima perché è stata votata il 4 marzo, la seconda perché è stata votata alternativamente negli ultimi dieci anni. Ma negli ultimi dieci anni l’orizzonte politico di tutti è sempre stato di sei mesi.
E la trattativa per un accordo con la Commissione europea? Politicamente importante. Economicamente e finanziariamente irrilevante, soprattutto se quei “numerini” sarebbero portati attorno al 2% di deficit facendo semplicemente slittare di qualche mese l’entrata in vigore del reddito di cittadinanza e di quota 100.
Per questo ci troviamo tutti in brache di tela.
Infine, quanto è possibile pensare che questa proposta possa essere fatta propria da un movimento di opinione che la metta come pietra d’angolo per costruire una nuova forza politica per una nuova Italia e una nuova Europa, popolare e non populista, liberale e non liberista, sociale e non statalista?
SE CI FOSSE UNA MAGGIORANZA RESPONSABILE ASCOLTEREBBE LA PROPOSTA DELLA OPPOSIZIONE