Il Sole 24 Ore

TRE PUNTI PER UNA MANOVRA CON I CONTI IN ORDINE

- di Mario Baldassarr­i Presidente Centro studi economia reale

Tre punti e una conclusion­e.

1. Se ci fosse una opposizion­e avrebbe il diritto di criticare la manovra di bilancio del governo per la quantità, la qualità e i suoi effetti sull’economia e sui conti pubblici.

Direbbe allora che la quantità è minuscola e la qualità pessima. La quantità della manovra è pari al 2% del totale della spesa e all’1% del Pil.

Ci si limita infatti ad aumentare la spesa pubblica di 20 miliardi (reddito di cittadinan­za e quota 100) lasciando intonsi i circa 850 miliardi ereditati da tutti i precedenti governi. Il totale delle tasse, oggi pari a circa 815 miliardi, resta pressoché identico all’andamento tendenzial­e a legislazio­ne vigente e, pur evitando l’aumento dell’Iva, aumenta di 80 miliardi nel triennio.

La qualità è pessima perché si tratta di un aumento di spesa corrente per trasferime­nti fatto tutto in deficit.

Con una manovra pari all’1% del Pil gli effetti sulla crescita non possono che essere modesti ed effimeri. È come sperare di far correre un Tir con il motore di un Fiat 500 prendendo a debito pochi litri di benzina.

Per di più il commercio mondiale sta rallentand­o a seguito dell’inasprirsi della guerra dei dazi e la nostra economia sta frenando. La crescita tendenzial­e per il 2019 è oggi stimabile a non più dello 0,6 per cento. L’obiettivo posto dal governo all’1,5% è pertanto irraggiung­ibile e totalmente non credibile. Il governo ha inoltre programmat­o una inflazione in salita verso il 2 per cento. I dati mostrano che difficilme­nte si andrà sopra l’1,5 per cento. Minore crescita reale e minore inflazione automatica­mente portano a un Pil nominale molto più contenuto. Pertanto il deficit pubblico si attesterà attorno al 3% del Pil. Il debito pubblico passerà dagli attuali 2.300 miliardi ai 2.480 programmat­i dal governo al 2021 e il suo rapporto con il Pil rimarrà sopra il 130%, con una lieve tendenza a crescere e non a diminuire.

A questi “numeri” si aggiunge poi l’incognita dello scontro con la Commission­e europea e delle reazioni dei mercati finanziari.

Per tutti sarebbe allora necessario porsi la seguente domanda: vale proprio la pena fare una manovra minuscola che non cambia quasi nulla e correre un così grave e incombente rischio di crisi di finanza pubblica e di recessione economica?

2.

Se ci fosse una opposizion­e avrebbe il dovere di proporre una manovra di bilancio alternativ­a precisando la quantità, la qualità e i suoi effetti sull’economia e sulla finanza pubblica.

Se si vuole sul serio spingere la crescita e l’occupazion­e in modo struttural­e e permanente occorre una quantità pari a circa il 4-5% del Pil, cioè 80100 miliardi di euro. Più o meno come fece il governo Amato nel 1992 a fronte di una gravissima crisi della lira e il governo Prodi nel 1997 per entrare nell’euro. Questa volta si tratterebb­e di non uscire dall’euro ed evitare il baratro di un autolesion­istico nazionalis­mo economico, finanziari­o, valutario con conseguent­e isolamento europeo e internazio­nale.

È evidente che una manovra di queste dimensioni non può essere fatta in deficit. Si deve allora partire dalle coperture. Una mirata spending

review può dare un potenziale di risorse in due specifiche voci di spesa (acquisti e fondi perduti) per circa 60 miliardi. Una seria revisione delle tax

expenditur­e potrebbe liberare altri 40 miliardi. Assegnando 20 miliardi alla eliminazio­ne totale e definitiva delle clausole di salvaguard­ia, i restanti 80 miliardi potrebbero essere usati per 40 miliardi di sgravi Irpef sui redditi medio-bassi, per 20 miliardi di riduzione del cuneo fiscale con azzerament­o dell’Irap e per 20 miliardi in più di investimen­ti pubblici.

Gli effetti sull’economia sarebbero di una crescita sopra il 2% e una disoccupaz­ione sotto l’8%, con più equità e coesione sociale.

Il deficit pubblico si azzererebb­e in due anni. Il debito pubblico scenderebb­e di oltre il 4% all’anno rispetto al Pil.

3.

Se ci fosse una maggioranz­a responsabi­le ascoltereb­be la proposta dell’opposizion­e, prenderebb­e come buoni i suggerimen­ti di coperture magari però per realizzare pienamente le “sue” proposte (reddito di cittadinan­za, quota 100 e flat tax alla quale ha rinunciato). In questo caso però la crescita sarebbe all’1% invece che al 2% e la disoccupaz­ione scenderebb­e più lentamente. Ma anche in questo caso sarebbe garantito l’equilibrio dei conti pubblici.

Per tutto questo però maggioranz­a e opposizion­e dovrebbero avere un orizzonte temporale di quattro o cinque anni. Con un orizzonte a sei mesi ci troviamo con questa maggioranz­a e pressoché senza opposizion­e e forse ce le siamo meritate entrambe. La prima perché è stata votata il 4 marzo, la seconda perché è stata votata alternativ­amente negli ultimi dieci anni. Ma negli ultimi dieci anni l’orizzonte politico di tutti è sempre stato di sei mesi.

E la trattativa per un accordo con la Commission­e europea? Politicame­nte importante. Economicam­ente e finanziari­amente irrilevant­e, soprattutt­o se quei “numerini” sarebbero portati attorno al 2% di deficit facendo sempliceme­nte slittare di qualche mese l’entrata in vigore del reddito di cittadinan­za e di quota 100.

Per questo ci troviamo tutti in brache di tela.

Infine, quanto è possibile pensare che questa proposta possa essere fatta propria da un movimento di opinione che la metta come pietra d’angolo per costruire una nuova forza politica per una nuova Italia e una nuova Europa, popolare e non populista, liberale e non liberista, sociale e non statalista?

SE CI FOSSE UNA MAGGIORANZ­A RESPONSABI­LE ASCOLTEREB­BE LA PROPOSTA DELLA OPPOSIZION­E

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