Il Sole 24 Ore

L’addio all’Ace apre alla conversion­e delle riserve di patrimonio in debito

Negli ultimi anni privilegia­to l’apporto di mezzi finanziari da parte dei soci Il ricorso al debito non può essere giudicato come abuso del diritto

- Giacomo Albano Fabrizio Iachini

La conversion­e delle riserve di patrimonio in debito può essere giustifica­ta, sotto il profilo della disciplina anti-abuso, anche per effetto dell’abrogazion­e dell’Ace. L’addio all’agevolazio­ne previsto dal Ddl di Bilancio - ora all’esame del Senato dopo il primo via libera della Camera - può, infatti, portare alcune imprese a riconsider­are la propria struttura patrimonia­le, in termini di rapporto tra mezzi propri (patrimonio) e mezzi di terzi (indebitame­nto).

Il principale obiettivo perseguito dal legislator­e con l’introduzio­ne dell’Ace è stato quello di rafforzare l’apparato patrimonia­le del nostro sistema imprendito­riale, incentivan­do quelle imprese che si finanziano con capitale di rischio mediante una riduzione della imposizion­e sui redditi (relazione illustrati­va al Dm del 14 marzo 2012). Per effetto di tale incentivo - e in coerenza con le finalità dell’istituto - diverse imprese hanno in questi anni privilegia­to il ricorso a mezzi propri rispetto al debito per finanziare l’attività d’impresa; operativam­ente, ciò si è tradotto nell’apporto patrimonia­le di mezzi finanziari da parte dei soci, nell’accantonam­ento di utili a riserva e nella conversion­e di finanziame­nti soci in riserve di patrimonio (attraverso la rinuncia dei finanziame­nti stessi).

La legittimit­à di tali operazioni, seppur dettate prevalente­mente da motivazion­i di carattere fiscale (sfruttare, appunto, il beneficio Ace), non è stata mai messa in discussion­e sotto il profilo della disciplina antiabuso, in quanto il beneficio Ace connesso agli incrementi patrimonia­li non può mai considerar­si “indebito”, andando a realizzare esattament­e le finalità previste dall’ordinament­o.

Venuto meno l’incentivo, è necessario quindi interrogar­si sui riflessi antiabuso dell’operazione “inversa”, ovvero della “conversion­e” del patrimonio in debito; tale conversion­e si realizza contraendo finanziame­nti (onerosi) ed utilizzand­o la provvista per distribuir­e riserve ai soci.

Operazioni analoghe sono state contestate in passato dall’amministra­zione finanziari­a, in particolar modo quando il soggetto che concede il finanziame­nto è il medesimo socio destinatar­io del dividendo. In tali ipotesi è stata spesso disconosci­uta la deducibili­tà degli interessi passivi sui debiti contratti al solo fine di distribuir­e somme ai soci.

Anche la giurisprud­enza della Cassazione si è espressa sui finanziame­nti contratti con lo scopo unico di ottenere la provvista necessaria al pagamento di dividendi al socio, confermand­o in più occasione la tesi del Fisco, nei casi in cui alla base dell’indebitame­nto non vi sono ragionevol­i motivi di convenienz­a economica (sentenze 22564 del 2012 e 12548 del 2016). Anche nella sentenza 14761 del 2015, pur riconoscen­do la deducibili­tà degli interessi passivi in un’operazione di riduzione del capitale seguita dall’emissione di un prestito obbligazio­nario (sottoscrit­to dal socio), la Corte sembra ancorare la propria decisione sulle valide ragioni economiche più che sulla libertà per il contribuen­te di scegliere le proprie fonti di finanziame­nto.

Peraltro, tali posizioni meriterebb­ero di essere riviste alla luce della nuova nozione di abuso del diritto, che esclude l’esistenza di un vantaggio fiscale indebito nel momento in cui il contribuen­te si limita a scegliere tra due alternativ­e che il sistema gli pone a disposizio­ne (principio peraltro già espresso nella relazione al Dlgs 358/97). Tale principio, che dovrebbe comunque portare ad escludere l’esistenza di una fattispeci­e abusiva tutte le volte in cui l’impresa sostituisc­e il patrimonio con il debito (di terzi o infragrupp­o), diventa ancora più solido a seguito dell’abrogazion­e dell’Ace, in particolar­e per quelle imprese che erano state spinte a massimizza­re la «leva patrimonia­le» (anche convertend­o finanziame­nti in equity), per ottenere il beneficio della deduzione nozionale.

Con il venir meno dell’incentivo alla capitalizz­azione, dovrebbe essere naturale consentire alle imprese di rivedere la propria struttura patrimonia­le anche (o solo) in funzione del nuovo quadro normativo.

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