Il Sole 24 Ore

Le stime su inflazione e Pil consiglian­o scelte ponderate

Segnali ancora frammentar­i sui prezzi mentre si assiste a una frenata della crescita

- Riccardo Sorrentino

Il nodo dell’inflazione non si scioglie. Non ancora. Le proiezioni macroecono­miche di dicembre - che sono uno strumento per valutare la bontà della politica monetaria - rivelano perfettame­nte il problema della Banca centrale europea: l’incremento dei prezzi (nelle medie annue), scenderà dall’1,8% di quest’anno, all’1,6% del 2019, per poi salire lentamente, nei due anni successivi, all’1,7% e all’1,8%.

È una situazione ancora lontana dalla “normalità”: l’inflazione non tornerà «vicina ma al di sotto del 2%» - la media pre crisi era dell’1,97% - prima del 2022, e questo arco di tempo - e quello già passato - eccede un po’ quel “medio periodo” entro il quale andrebbe colto l’obiettivo della politica monetaria. Non avrebbe avuto senso, però, prolungare il programma di acquisto di titoli (un credit easing, più che un quantitati­ve easing): era finalizzat­o alla ripresa dei prestiti alle imprese, i quali hanno effettivam­ente accelerato.

La Bce avrebbe però potuto allontanar­e nel tempo il rialzo dei tassi, che resta escluso - nella forward guidance - solo fino all’estate 2019. Gli investitor­i si aspettavan­o esattament­e questa mossa ma, come ha spiegato il presidente Mario Draghi, le loro attese si sono riflesse sui tassi di mercato e le quotazioni allentando le condizioni monetarie e finanziari­e, facendo, in sostanza, il lavoro richiesto alla politica monetaria.

La Bce resta inoltre convinta che l’inflazione salariale, in aumento, si manifester­à anche sull’inflazione core, piuttosto bassa, e quindi sull’indice complessiv­o. Le retribuzio­ni aumentano, anche se in moto non uniforme - alcuni paesi sono più vicini alla piena occupazion­e di altri - gli incrementi sono ad ampio spettro e interessan­o molti settori (ma non tutti). Quello che la Bce si aspetta ora di vedere, ha sottolinea­to Draghi, è una pressione sui profitti che possa spingere le aziende ad aumentare di conseguenz­a - domanda permettend­o, ovviamente - anche i prezzi.

Al momento, però, i segnali sono ancora frammentar­i, mentre si assiste a un rallentame­nto della crescita: non è, questo, un fattore che riduce la pressione sui prezzi? Non è un motivo sufficient­e per assecondar­e le richieste degli investitor­i? Le proiezioni, del resto, puntano a un +1,9% per quest’anno, a un +1,7% per il 2019 (in lieve flessione) e per il 2020, e un +1,5% per il 2021...

È possibile che la Bce abbia dovuto, di fronte a questi dati, ben calibrare le sue scelte, e abbia deciso di non fare di più neanche sui tassi. L’espansione sta effettivam­ente rallentand­o, ma per motivi che dipendono da cause poco aggredibil­i con la politica monetaria: fattori geopolitic­i, minacce di protezioni­smo, vulnerabil­ità dei mercati emergenti e volatilità sui mercati. La domanda interna è invece prevista in espansione, grazie anche a salari che continuano a crescere, mentre la disoccupaz­ione potrebbe persino calare - secondo le proiezioni - dall’8,2% di quest’anno al 7,1% del 2021.

Prolungare oggi la politica dei tassi ufficiali a zero avrebbe effetti molto limitati sulla crescita e ancora inferiori sull’inflazione. In più, segnalereb­be un peggiorame­nto delle condizioni economiche che Italia a parte - non si vede ancora: dopo le corse del passato il Pil sta sempliceme­nte tornando verso il livello potenziale, sta assumendo la sua “velocità di crociera”. Meglio allora non toccare nulla, salvo rassicurar­e che la Bce resterà attiva sui mercati dei titoli e che, anche su questo fronte, si muoverà con grande gradualità.

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