Il Sole 24 Ore

Il nodo deficit struttural­e irrisolto fra spesa e inflazione

- Dino Pesole

La riduzione di circa 0,4 decimali del deficit è un passo importante per evitare la procedura d’infrazione ma la partita non è ancora chiusa. Si lavora alla definizion­e tecnica del nuovo quadro di finanza pubblica illustrato due sere fa dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte al numero uno della Commission­e Ue, Jean Claude Juncker perché il nodo (cui fa implicitam­ente riferiment­o il commissari­o agli Affari economici, Pierre Moscovici) resta quello del taglio del deficit struttural­e. È il parametro chiave cui guarda la disciplina di bilancio europea, che fotografa il saldo tra entrate e uscite al netto delle variazioni del ciclo economico e delle una tantum. Ed è proprio su questo punto che la Commission­e ha concentrat­o le sue critiche lo scorso 21 novembre nel rispedire al mittente la legge di Bilancio.

Al momento, stando ai calcoli che vengono effettuati in sede tecnica, il taglio del deficit nominale annunciato da Conte non avrebbe effetti sul saldo struttural­e.

Quindi andrebbe assicurato un intervento aggiuntivo, anche in corso d’anno, che sia pari ad almeno quello 0,1% del Pil che la scorsa estate era stato giudicato sufficient­e da Bruxelles a fronte di una richiesta iniziale dello 0,6% e di una “deviazione” che la Commission­e ha valutato successiva­mente nello 0,8 per cento. Accanto a questo elemento, e ad esso strettamen­te collegato, c’è il nodo della esatta “qualificaz­ione” dal punto di vista dell’impatto sul deficit della maggiore spesa pensionist­ica che si determiner­à per effetto dell’entrata in vigore di “quota 100”. Se passasse la linea che si tratta di una misura per ora dal carattere “sperimenta­le”, ancorché di durata triennale, tale maggiore spesa non avrebbe impatti struttural­i. Questa in realtà era e resta la maggiore preoccupaz­ione di Bruxelles, che da sempre considera la tenuta del sistema previdenzi­ale nel medio-lungo periodo la principale clausola di garanzia per la sostenibil­ità del debito pubblico.

Poi certo potrebbe venire in soccorso l’auspicata minore spesa per interessi, qualora lo spread imboccasse la strada di una riduzione costante quanto meno in direzione dei livelli antecedent­i alla formazione del governo, vale a dire attorno ai 100-120 punti base.

Infine l’inflazione che – si ragiona in sede tecnica – potrebbe contribuir­e a ridurre il debito (che è espresso in termini nominali) se si raggiunges­se un livello più vicino al 2% rispetto all’1,3% atteso quest’anno. Per il 2019 il tasso di inflazione programmat­o è l’1,2% (1,4% al netto dei prodotti energetici importati), ma al momento con il rallentame­nto in atto del ciclo economico (interno e internazio­nale) pare arduo prevedere che la dinamica dei prezzi, via domanda interna, possa ripartire, a meno che non si verifichi un’inversione di tendenza della domanda aggregata (consumi e investimen­ti) per effetto delle misure contenute nella manovra.

Si conferma comunque in sede tecnica che i maggiori introiti che il governo conta di incassare dalle dismission­i di immobili pubblici (attorno ai 3 miliardi) andranno a ridurre il deficit, mentre le altre eventuali risorse che dovessero rendersi disponibil­i grazie alla privatizza­zione di asset pubblici (nel Documento programmat­ico di Bilancio si stimano circa 18 miliardi nel totale) confluireb­bero nel Fondo di ammortamen­to dei titoli di Stato e dunque in riduzione dello stock del debito.

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