Il nodo deficit strutturale irrisolto fra spesa e inflazione
La riduzione di circa 0,4 decimali del deficit è un passo importante per evitare la procedura d’infrazione ma la partita non è ancora chiusa. Si lavora alla definizione tecnica del nuovo quadro di finanza pubblica illustrato due sere fa dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte al numero uno della Commissione Ue, Jean Claude Juncker perché il nodo (cui fa implicitamente riferimento il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici) resta quello del taglio del deficit strutturale. È il parametro chiave cui guarda la disciplina di bilancio europea, che fotografa il saldo tra entrate e uscite al netto delle variazioni del ciclo economico e delle una tantum. Ed è proprio su questo punto che la Commissione ha concentrato le sue critiche lo scorso 21 novembre nel rispedire al mittente la legge di Bilancio.
Al momento, stando ai calcoli che vengono effettuati in sede tecnica, il taglio del deficit nominale annunciato da Conte non avrebbe effetti sul saldo strutturale.
Quindi andrebbe assicurato un intervento aggiuntivo, anche in corso d’anno, che sia pari ad almeno quello 0,1% del Pil che la scorsa estate era stato giudicato sufficiente da Bruxelles a fronte di una richiesta iniziale dello 0,6% e di una “deviazione” che la Commissione ha valutato successivamente nello 0,8 per cento. Accanto a questo elemento, e ad esso strettamente collegato, c’è il nodo della esatta “qualificazione” dal punto di vista dell’impatto sul deficit della maggiore spesa pensionistica che si determinerà per effetto dell’entrata in vigore di “quota 100”. Se passasse la linea che si tratta di una misura per ora dal carattere “sperimentale”, ancorché di durata triennale, tale maggiore spesa non avrebbe impatti strutturali. Questa in realtà era e resta la maggiore preoccupazione di Bruxelles, che da sempre considera la tenuta del sistema previdenziale nel medio-lungo periodo la principale clausola di garanzia per la sostenibilità del debito pubblico.
Poi certo potrebbe venire in soccorso l’auspicata minore spesa per interessi, qualora lo spread imboccasse la strada di una riduzione costante quanto meno in direzione dei livelli antecedenti alla formazione del governo, vale a dire attorno ai 100-120 punti base.
Infine l’inflazione che – si ragiona in sede tecnica – potrebbe contribuire a ridurre il debito (che è espresso in termini nominali) se si raggiungesse un livello più vicino al 2% rispetto all’1,3% atteso quest’anno. Per il 2019 il tasso di inflazione programmato è l’1,2% (1,4% al netto dei prodotti energetici importati), ma al momento con il rallentamento in atto del ciclo economico (interno e internazionale) pare arduo prevedere che la dinamica dei prezzi, via domanda interna, possa ripartire, a meno che non si verifichi un’inversione di tendenza della domanda aggregata (consumi e investimenti) per effetto delle misure contenute nella manovra.
Si conferma comunque in sede tecnica che i maggiori introiti che il governo conta di incassare dalle dismissioni di immobili pubblici (attorno ai 3 miliardi) andranno a ridurre il deficit, mentre le altre eventuali risorse che dovessero rendersi disponibili grazie alla privatizzazione di asset pubblici (nel Documento programmatico di Bilancio si stimano circa 18 miliardi nel totale) confluirebbero nel Fondo di ammortamento dei titoli di Stato e dunque in riduzione dello stock del debito.