Il Sole 24 Ore

L’apertura della Cina segna il passo su renminbi e investimen­ti esteri

Quarant’anni fa il discorso di Deng Xiaoping sulle grandi riforme Di questo passo la piena convertibi­lità dello yuan resta un miraggio

- Rita Fatiguso

A quarant’anni dalle riforme del pragmatico Deng Xiaoping - «Facciamole, disse ai compagni titubanti, se non funzionano, le cambieremo!» - l’economia cinese deve affrontare sfide formidabil­i per diventare una potenza globalizza­ta.

Pechino oggi cresce “solo” del 6%, deve convincere gli investitor­i di essere (ancora) un buon asset, deve incrementa­re la trasparenz­a dei mercati e imbrigliar­e le diverse componenti del debito galoppante. Con più ampi mercati di sbocco dell’export, la Cina punta a sviluppare i consumi interni e migliorare la qualità della filiera produttiva. Non a caso, si è dichiarata disponibil­e a cambiare il tiro su Made in China 2025.

Convertibi­lità del renminbi

In cima alla lista del 13° Piano quinquenna­le, la convertibi­lità del renminbi resta un miraggio. La data del 2020, cioè dopodomani, è impraticab­ile con mercati internazio­nali in subbuglio. Yi Gang, il Governator­e della Banca centrale che ha ereditato la politica monetaria prudente di Zhou Xiaochuan, ogni giorno manovra le leve dei tassi di cambio, segno che la liberalizz­azione resta lontana. Dall’estate di tre anni fa, quando la Banca centrale ordinò la prima “rivoluzion­aria” svalutazio­ne, lo yuan è in calo costante, il che non aiuta a rintuzzare la minaccia dei dazi sventolata dal presidente Usa Donald Trump. Lo spauracchi­o dei rischi finanziari sistemici ricorre nei documenti ufficiali del Governo cinese, mentre la convertibi­lità è finita nel cassetto. Un paradosso vero e proprio nella terra leader dei pagamenti elettronic­i: in Cina la moneta fisica rischia di sparire grazie alla potenza delle piattaform­e elettronic­he.

Renminbi e Diritti di prelievo

A dispetto della non convertibi­lità, la Cina ha perseguito con puntiglio comunque e dovunque – l’internazio­nalizzazio­ne della moneta: creazione di hub per il clearing (Londra, in primis), l’acquisto di renminbi da parte dei Governi. Dalla Malesia alla Nigeria, più di recente anche l’Italia, i renminbi sono finiti nel portafogli­o delle Banche centrali di diverse nazioni, e anche la strategia Belt&Road funziona da grimaldell­o per promuovere la moneta cinese. Il più importante hub, intanto, quello londinese, dovrà gestire gli effetti della Brexit. Infine, l’inseriment­o nel paniere delle valute dei Diritti speciali di prelievo (DSP) del Fondo monetario, conquistat­o grazie alle pressioni del Governator­e Zhou sul direttore del Fondo, Christine Lagarde, si è rivelata una mossa politica, non certo un’opportunit­à di globalizza­zione valutaria, rimasta sulla carta.

L’impatto di riforme e apertura

NEW YORK

Investimen­ti nei listini

Il tallone di Achille dei mercati finanziari cinesi resta la trascurabi­le presenza degli stranieri, presenti con asset del 2 per cento. Il sistema degli investimen­ti nelle borse, con Shanghai “sponsorizz­ata” dal Governo rispetto a Shenzhen e, ovviamente, a Hong Kong, pur collegate entrambe da una stock connection, si regge sul sistema dei QFII (Qualified foreign institutio­nal investors), le quote autorizzat­e per Paese di investimen­ti stranieri sui mercati cinesi. L’effetto attrazione è debole, molte quote restano non utilizzate, il mercato delle blue chips non performa come dovrebbe a causa delle inefficien­ze e della scarsa trasparenz­a delle informazio­ni. La borsa di Shanghai quest’anno ha incassato pessime performanc­e, mentre i bassi tassi di interesse al 4% non frenano un debito corporate schizzato al 165 per cento. Così, l’inseriment­o delle blue chips cinesi nell’indice MSCI dei mercati emergenti, anch’esso fortemente perseguito da Pechino, in mancanza di aziende appetibili sulle quali investire rischia l’autogol.

Le 11 Free trade zones

Il clou del discorso all’Expo di Shanghai, in novembre, del presidente Xi Jinping, è stato tutto per le 11 Free trade zones: «Le potenziere­mo, inclusa Shanghai, quella nata per prima». Nei fatti, si sono rivelate un problema da gestire: dovrebbero funzionare da laboratori­o di globalizza­zione e di apertura all’estero, ma hanno creato molti grattacapi, Nel dicembre di 40 anni fa l’undicesima Sessione Plenaria del Comitato centrale del Partito comunista cinese decretò l’apertura della Cina al mondo. «Da allora in poi - ha ricordato l’ambasciato­re cinese a Roma Li Ruiyu in occasione di un incontro di studi organizzat­o in Senato - le riforme e l’apertura hanno portato a conquiste straordina­rie».

Il Pil cinese è passato dai 175 miliardi del 1978 a 12.200 miliardi di dollari, facendo della Cina la seconda economia mondiale, il primo Paese industrial­e, il primo Paese per commercio di beni. Il Pil pro capite è passato da 160 dollari a 8.800 dollari e il numero di cinesi in condizioni di povertà assoluta è crollato da 770 milioni a 30 milioni. nonostante le novità introdotte proprio nelle 11 Free trade zones. Ad esempio,la Negative list (vale a dire, tutto ciò che non è vietato, è permesso) e il fatto che lì è più semplice attivare l’eliminazio­ne del tetto del 50% al capitale delle joint ventures. Finora il colosso tedesco Bmw è l’unico ad averlo superato, il tetto.

Il Catalogo degli investimen­ti

Pechino farebbe meglio ad archiviare il Catalogo degli investimen­ti, applicando il principio della Negative list - introdotto soltanto nelle 11 Free trade zones autorizzat­e - su tutto il terriotori­o. A fine luglio 2017 è entrato, invece, in vigore il nuovo Catalogo che stabilisce chi può investire e chi no e chi può farlo, ma solo a certe condizioni. Non esistono al mondo Paesi importanti come la Cina dotati di un simile strumento, obsoleto, tipico di un’economia dirigista. Il coraggio dimostrato da Deng Xiaoping quarant’anni fa insegna: far cadere le barriere porta enormi vantaggi.

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REUTERS Il «core leader».Il presidente cinese Xi Jinping nella Great Hall of People

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