LA RESILIENZA DELL’EUROPA NON BASTA ALL’ECONOMIA
Londra e Roma hanno commesso un errore a sottovalutare la resilienza dell’Unione europea (Ue). A Londra, chi ha promosso la Brexit pensava che l’Ue fosse in una fase di irreversibile declino, che le divisioni al suo interno le avrebbero impedito di definire e mantenere una posizione comune nel negoziato con i britannici. Nigel Farage e Boris Johnson hanno più volte sostenuto che il Regno Unito avrebbe massimizzato i vantaggi dell’uscita (dall’Ue) con quelli dell’entrata in nuovi accordi commerciali (con altri Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti). Nulla di ciò è avvenuto. Il Regno Unito è entrato invece in una crisi politica senza precedenti, come di solito avviene (secondo il Financial Times) dopo una sconfitta bellica. Venerdì scorso, all’incontro con i capi di governo dell’Ue, il premier Theresa May ha dovuto prendere atto mestamente che l’ambiguità non è una strategia.
A Roma, chi ha promosso l’assalto alle regole dell’Eurozona pensava che quest’ultima avrebbe ceduto di fronte alla determinazione del governo del cambiamento, accettando una proposta di bilancio 2019 che disconosceva basilari impegni collettivi. I leader che hanno guidato l’assalto hanno addirittura celebrato la vittoria prima ancora di combattere la battaglia. Luigi Di Maio è salito sul balcone di Palazzo Chigi per festeggiare la decisione di imporre a Bruxelles un deficit nominale del 2,4 per cento, Matteo Salvini si era limitato a inviare un garbato «me ne frego» all’indirizzo di chi (a Bruxelles) aveva avanzato critiche alla proposta di bilancio. Anche in questo caso, la spavalderia ha fatto poca strada. Il governo italiano ha ridotto il deficit nominale dal 2,4 al 2,04 (confidando nell’ignoranza matematica dei suoi sostenitori), anche se ciò che conta (per la Commissione) è il deficit strutturale. Per fare scendere quest’ultimo, il governo dovrà ridimensionare non poco le sue promesse elettorali.
L’Ue si è dunque dimostrata più resiliente di quanto ritenuto dai suoi avversari. Ciò significa che essa va bene così come è? Non direi proprio, per almeno due ragioni. La prima ragione riguarda la sua struttura decisionale. Giovedì e venerdì scorsi, a Bruxelles, si sono riuniti il Consiglio europeo dei capi di governo, l'Euro Summit (i capi di governo dell'Eurozona), l'Eurogruppo (ministri finanziari dell'Eurozona insieme ai ministri finanziari del Paesi che non partecipano all'Eurozona).
A queste riunioni hanno partecipato il presidente e i vice-presidenti della Commissione, oltre che il presidente del Parlamento europeo e il presidente della Banca centrale europea. Tra capi di governo, ministri, commissari, cabinets dei vari presidenti, un centinaio di persone ha partecipato alle deliberazioni. Queste persone costituiscono la testa intergovernativa dell'Ue e, nel caso dell'Eurozona, il suo esecutivo collegiale. Tali organismi intergovernativi prendono decisioni con fatica, spesso sotto l'influenza della coalizione interstatale più forte. Ad esempio, l'altro ieri, l'Euro Summit (recependo le indicazioni dell'Eurogruppo) ha deciso di porre il Fondo salva-stati al centro della futura governance dell'Eurozona, facendone lo strumento finanziario principale per la gestione delle crisi (oltre che trasformandolo nel backstop finanziario del Fondo unico di risoluzione delle sofferenze bancarie).
Nello stesso tempo, ha deciso però di rinviare il completamento dell'Unione bancaria (con l'istituzione dello Schema europeo di assicurazione dei depositi) e di svuotare la proposta di budget dell'Eurozona (seppure avanzata dalla Francia), trasformandola in un capitolo minore del budget dell'Ue (con lo scopo di favorire la convergenza tra Paesi dell'Eurozona, senza alcuna funzione anticiclica). L'esito sarà il rafforzamento ulteriore della logica intergovernativa (il Fondo salva-stati si basa su un trattato internazionale), confondendo ancora di più le responsabilità per le scelte che verranno prese.
La seconda ragione è che tale complessità intergovernativa fa fatica a misurarsi con le crisi (sociali, economiche e politiche) che colpiscono asimmetricamente alcuni stati membri dell'Ue o dell'Eurozona. Questi ultimi non hanno strumenti o risorse sufficienti per affrontare quelle crisi, in quanto i processi decisionali si sono ormai trasferiti a Bruxelles e non sono più nella capitale nazionale. E' inevitabile che ciò produca reazione tra i cittadini più colpiti dalle decisioni prese o non-prese.
Di qui, la richiesta di “riportare a casa” il controllo su quelle decisioni. Una richiesta irrealistica, ma utile agli imprenditori della rivolta. Che hanno infatti alimentato il malessere, in particolare in quei Paesi dell'Eurozona che hanno una struttura economico-politica poco congeniale con la logica fiscale che governa quest'ultima. Se la Germania può portare il suo debito pubblico sotto il 60 per cento del Pil nel 2019, ciò è impossibile in Paesi come l'Italia e la Francia.
Non basta dire che i Gilet Gialli esprimono una rabbia sociale senza testa, né ci si può accontentare di denunciare che i populisti (una volta giunti al governo come in Italia) non sanno cosa fare (anche per la inquietante modestia delle loro leadership politiche). Il malessere sociale che alimenta quei movimenti va affrontato e governato, non lasciato in mano a dilettanti allo sbaraglio. E per governarlo ci vuole molto di più che la convergenza tra le economie europee. Ci vuole un governo dell'Eurozona liberato dai vincolati intergovernativi, anche se inclusivo degli interessi dei governi nazionali che la costituiscono.
Insomma, la buona notizia è che le vicende di Londra e Roma ci dicono che l'Ue e l'Eurozona sono molto più resilienti di quanto ritenuto dai loro avversari. La cattiva notizia è che le vicende di Parigi e Roma ci dicono che la resilienza non basta per governare i cambiamenti delle nostre economie e società.