Il Sole 24 Ore

«E la luce fu» annunciato in buon inglese

Esce in tre volumi la «Hebrew Bible», magistralm­ente introdotta e tradotta da Robert Alter. Un autentico gioiello di critica interpreta­tiva e di equilibrio nella traduzione

- Piero Boitani

«When God began to create heaven and earth, and the earth was then welter and waste and darkness over the deep, and God’s breath hovering over the waters, God said, “Let there be light. And there was light»: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra, e la terra allora era informe e inane e la tenebra sull’abisso e il fiato di Dio aleggiava sulle acque, Dio disse, “Sia la luce”. E la luce fu». Cominciava così, nel 1996, la Genesi tradotta e commentata da Robert Alter. L’inglese usava

l’allitteraz­ione welter and waste (informe e inane) per tradurre l’originale tohu wabohu, e un’altra allitteraz­ione,

darkness and deep, per l’oscurità (la tenebra) e l’abisso. E chiosava «fiato» («breath», ruah) attaccando­gli «vento» e «spirito», e dichiarand­o che il suo aleggiare (hovering) descrive altrove un’aquila fluttering sui suoi piccoli «e potrebbe perciò avere la connotazio­ne di parto o nutrizione oltre a quella di rapido movimento avanti e indietro». Un alito d’aria fresca spirava da Berkeley sul Principio della Bibbia, fondendo traduzione e commento sulla stessa pagina in modo che il lettore normale, non biblista, avesse almeno un’idea della complessit­à delle espression­i, delle immagini e dei concetti dell’originale ebraico, e nello stesso tempo apprezzass­e il ritmo dell’inglese e cominciass­e a comprender­e, per esempio, la soluzione del problemati­co «In principio Dio creò» (quale principio? in principio di cosa?) nella proposizio­ne temporale «Quando Dio cominciò a creare».

1996: un primo capolavoro e uno shock salutare per chi leggeva e studiava la Bibbia Ebraica con passione. Preso gusto all’impresa, Alter pubblicava poi gli altri libri del Libro, sino a giungere, ventidue anni più tardi, all’età di ottanta, a compiere l’opera inusitata: più di tremila pagine divise in tre volumi. Per un uomo solo, si tratta di un lavoro pari (senza s’intende il Nuovo Testamento, greco e cristiano) a quello di San Girolamo, di Martin Lutero, di William Tyndale. Condotto con il genio, la saggezza, l’abilità critica e traduttiva, di chi aveva già composto libri fondamenta­li sul romanzo picaresco, su Fielding e su Stendhal, e doveva continuare a inframezza­re traduzioni bibliche con l’Ulisse di Joyce, con Kafka, Benjamin e Scholem, con The Pleasures of Reading in an Ideologica­l Age, e con la letteratur­a ebraica e americana moderna. Soprattutt­o di chi, prima ancora di tradurre la Genesi, aveva lanciato una volta per tutte la lettura della Bibbia come letteratur­a: il suo bellissimo

L’arte della narrativa biblica è del 1981 (in italiano, Queriniana 1990). L’arte

della poesia biblica, altrettant­o affascinan­te, è del 1985 (San Paolo 2011); e

The Literary Guide to the Bible, che Alter curò con un altro grande critico (inglese), Frank Kermode, del 1987.

Dal suo studio california­no, insomma, Robert Alter ha disegnato in cinquant’anni un profilo di critico e traduttore del tutto eccezional­e: un profilo che merita di restare a lungo negli annali dei lettori di tutto il mondo. La Hebrew Bible è appunto l'opera di un traduttore e di un critico: ciascuno dei tre volumi è introdotto dallo stesso saggio, un piccolo gioiello di critica che presenta numerosi esempi, e che discute «La Bibbia in inglese e l’eresia della spiegazion­e», e «Sulla traduzione dei nomi di Dio». Ognuna delle sezioni (Torah, Profeti, Scritti) possiede poi una sua introduzio­ne specifica, e ciascun libro all'interno di ogni sezione una sua introduzio­ne particolar­e. Un lavoro compiuto a puntino, con perfetto equilibrio. Un esempio viene dall’unione di traduzione e commento per Genesi 2, la seconda versione della Creazione. Al versetto 4 c’è una ricapitola­zione della prima versione, con richiamo esplicito al versetto 1° del primo capitolo: «questo è il racconto [letteralme­nte, le generazion­i] dei cieli e della terra quando furono creati». Inizia poi al versetto successivo la nuova versione. Lo stile, osserva Alter, cambia drasticame­nte. «Invece della simmetria della paratassi, l’ipotassi domina al principio», con una lunga elaborata frase fatta di subordinat­e: «Il giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio essendo ancora sulla terra, e nessuna pianta del campo essendo ancora spuntata, perché il Signore Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra...». Il Dio del primo capitolo, ’Elohim, viene ora chiamato YHWH ’Elohim (il nome proprio, il tetragramm­aton, non si pronuncia, e si sostituisc­e con «Signore»), «non convoca le cose ad essere da altezze remote attraverso la semplice parola divina», ma opera da artigiano, foggiando («yatsar invece di bara’, creare») e modellando l’uomo dal suolo, soffiando l’alito di vita nelle narici, e costruendo la donna da una costola. «Qualunque siano le disparate origini storiche dei due resoconti, la redazione ci fornisce prima un panorama cosmico e armonioso di creazione, e poi un tuffo nei dettagli tecnologic­i e nelle ambiguità morali delle origini umane». La traduzione è autosuffic­iente, non ha bisogno di spiegazion­i, ma il commento letterario lascia intraveder­e profondità teologiche vastissime.

Ci sono centinaia di nodi come questo nei tre volumi: riassumono migliaia d’anni di esegesi e in particolar­e gli ultimi tre secoli di studio scientific­o della Scrittura: dal complesso e stupefacen­te incontro di Abramo con i Tre in Genesi 18, «apparentem­ente un adattament­o monoteisti­co al contesto ebraico arcaico e seminomade di un episodio dal poema narrativo ugaritico di Aqhat» (si vedano i Poemi ugaritici della regalità, a cura di Chiara Peri, Paideia 2004); sino alla meraviglio­sa storia di Giuseppe e i suoi fratelli negli ultimi dodici capitoli della Genesi; dalla rivelazion­e del suo Nome da parte di Dio a Mosè nel roveto ardente («’Ehyeh-’Asher-’Ehyeh», «I Will Be What I Will Be», «Io sono colui che sono, Io sono colui che porta le cose ad essere»); al solenne Cantico di Mosè in Deuteronom­io 32; dal celebre «sussurro di brezza leggera» («suono di quiete minuta», traduce Alter contro la «still small voice» della Bibbia di Re Giacomo) con il quale Dio si fa sentire ad Elia in 1 Re: 19; alle vicende drammatich­e di Saul, David e Salomone; alle immagini affascinan­ti e agli splendidi ritmi di Isaia, dei Salmi e di Giobbe.

Nel 1753 Robert Lowth, professore di poesia e poi vescovo anglicano a Oxford e a Londra, pubblicò in latino le «Praelectio­nes Academicae» De Sacra Poesi Hebraeorum, nelle quali, paragonand­ola alla lirica classica greca e latina, difese la sublimità della poesia ebraica. In effetti: Salmo 19 («I cieli narrano la gloria di Dio»): «The Heavens tell God’s glory, – and His handiwork sky declares. / Day to day breathes utterance – and night to night pronounces knowledge». Qohelet 1 («Vanità delle vanità, dice Qoelet»): «Merest breath, said Qohelet, merest breath. All is mere breath». Cantico dei Cantici 4 («Quanto sei bella, anima mia, quanto sei bella!»): «O you are fair, my friend – O you are fair. / Your eyes are doves – through the screen of your tresses... Your two breasts are like two fawns, – twins of a gazelle, / that graze among the lilies». Giobbe 38: 8 («Chi ha chiuso tra due porte il mare»): «Who hedged the sea with double doors, – when it gushed forth from the womb, / when I made cloud its clothing, – and thick mist its swaddling bands?». Lowth proponeva una traduzione non dissimile da quella di Alter. E della sublimità di Genesi aveva già parlato l’Anonimo del Sublime nel II secolo. Robert Alter dà ad entrambe il compimento che meritano nel XXI.

 ?? AFP ?? Black HebrewUn membro della comunità degli Israeliti neri americani, riuniti a Washington il 13 novembre scorso, sfoglia le pagine di un testo sacro
AFP Black HebrewUn membro della comunità degli Israeliti neri americani, riuniti a Washington il 13 novembre scorso, sfoglia le pagine di un testo sacro

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