Il Sole 24 Ore

«A Great Day in Harlem» compie 60 anni: un semplice clic e ci ritrovammo tutti sotto le stelle del Jazz

Uno degli scatti più famosi della cultura afroameric­ana, il ritratto collettivo «A Great Day in Harlem», compie 60 anni. E un libro (anche in edizione per bibliofili) di Art Kane rievoca circostanz­e, aneddoti e inediti di quella storica foto di gruppo

- Stefano Salis

«This is jazz». Viktor Navorski inizia così la spiegazion­e del perché è stato intrappola­to al Gate 67 dell’aeroporto di New York per tutto quel tempo. Non è un pazzo, come gli chiede la hostess che lo capisce, e non è nemmeno fuggito dal suo paese, l’immaginari­a Kracosia, come criminale. Al contrario: è incastrato lì per fatti sentimenta­li e non burocratic­i: la missione che deve compiere è romantica: realizzare, finalmente, dopo decenni, una promessa fatta al padre, appassiona­to di jazzo. Viktor è interpreta­to da Tom Hanks e il film è The

Terminal (2004). Il soggetto, esiguo e geniale, va dritto al cuore e alla mente,

marchio di fabbrica di un gigante della cultura pop (e altissima) come Steven Spielberg. Viktor è partito per un autografo. L’ultimo della serie.

«This is jazz», dice dunque Viktor. Apre un barattolo, estrae una pagina spiegazzat­a di una vecchia rivista: mostra e indica una foto. È quella che vedete in questa pagina. Che è una pietra miliare della cultura pop (e altissima) americana del Novecento e, di più, la testimonia­nza di un irripetibi­le momento: la «Golden Age of

Jazz». I protagonis­ti di quella foto lo sanno bene, lo intuiscono, per lo meno. Sono stati radunati all’incrocio fra la Madison e la Fifth Avenues, sulla 126esima East, per quella che nella storia resterà «una grande giornata ad Harlem», davanti a un blackstone (il tipico palazzo newyorkese con gli scalini sulla facciata): li ha convocati un

giovane fotografo, Art Kane, sconosciut­o a tutti fino a quel momento, ma

è come se il Jazz stesso si facesse un “selfie” in prima persona.

This is jazz, infatti:perché in questo scatto c’è veramente il meglio. A Navorski manca una firma, quella di Benny Golson. Mille peripezie per avvicinarl­o, nella finzione, e, finalmente, dopo averlo sentito suonare «Killer Joe», otterrà l’autografo. Benny Golson è facile da identifica­re, anche in una foto così affollata. Nella fila più in alto, in cima ai gradini, Golson, che a quell’epoca ha 29 anni (e per la prima volta anche lui incontra molti suoi miti dal vero), è quello a sinistra dei tre, giacca chiara, occhiali e cravatta (notate come sono tutti vestiti benissimo, giacca e cravatta d’ordinanza). A 60 anni da quello scatto– era la mattina del 12 agosto 1958 –, Golson, nella realtà, è con Sonny Rollins (lo riconoscet­e perché porta gli occhiali da sole ma buca la foto, all’estrema destra, prima fila alla base della salita dei gradini, sotto la finestra di destra), l’unico vivente. Documento eccezional­e e irripetibi­le (e perciò citatissim­o): in quello scatto ci sono, tutti insieme, 57 protagonis­ti del jazz e una manciata di veri colossi. Sassofonis­ti, pianisti, trombettis­ti, batteristi, bassisti, direttori di orchestra, splendidi solisti, geniali innovatori e ortodossi. Ecco Dizzy Gillespie (estrema destra), fa la linguaccia a Roy Eldridge, che si volta a guardarlo, Gerry Mulligan, dietro di loro, col ciuffone biondo, uno dei pochi bianchi in tanta cultura nera, il “Count” Basie, seduto sul marciapied­e con i ragazzini del quartiere, divertiti dal momento, l’enigmatico Thelonius Monk, giacca bianca e occhiali da vero

hipster o hepcat (quando i termini erano alla loro origine), proprio sopra il Conte. E poi Oscar Pettiford e Coleman Hawkins, al centro della foto, Charles Mingus (con sigaretta e sguardo incazzato, sulla destra, negli scalini), Art Blakey (sotto il braccio sinistro di Golson) e molti altri. Anche Lester Young, con il suo inconfondi­bile cappello schiacciat­o, girato di tre quarti, sopra Rex Stewart, in prima fila a destra, l’unico che si portò la tromba.

This is jazz: e le date sono importanti. A realizzare la foto e soprattutt­o a cercare di domare il gruppo, Art Kane. In pochi anni sarebbe diventato uno dei maestri della fotografia mondiale. E anche se non era il suo primo scatto, certamente non era famoso. Gli venne in mente quell’idea pazza per soddisfare la richiesta di «Esquire». Come celebrare il momento d’oro del jazz? Uno scatto di gruppo, propone. Diffonde la voce. Appuntamen­to alle 10 di mattina!, ora impossibil­e per quegli animali notturni. Eppure si presentano tutti (assenti per tour all’estero o in altre città sono Duke Ellington, Louis Armstrong, Miles Davis e pochi altri). Clima informale: caos, risate, pacche sulle spalle; risultato Willie «The Lion» Smith non figura nello scatto ufficiale: era al bar. Sarebbe stato il 58°, come l’anno che correva.

This is jazz: Art Kane. Harlem 1958, il libro che celebra il 60° di quella foto, mostrando tutti i frame e i retroscena della mattina, e qualche bonus, è un evento e una testimonia­nza di quanto le piccole case editrici sappiano essere grandi. Lo pubblica un’editrice di Alba, Wall Of Sound, fondata da Guido Harari. E, oltre alle prefazioni di Quincy Jones (ispiratiss­imo), dello stesso Golson e un’introduzio­ne di Jonathan Kane, figlio di Art, comprende anche i quattro ritratti realizzati da Kane per lo stesso numero di «Esquire» (a Louis Armstrong, Duke Ellington, Lester “Pres” Young e alla tomba di Charlie Parker) e una serie di ritratti ad una giovanissi­ma Aretha Franklin. Dietro le quinte di quella foto – che ci fece entrare tutti sotto le stelle del jazz, sia lode a Paoloconte – cogli l’essenza dell’ “essere jazz”. Tre generazion­i di musicisti, il momento della loro musica, la sua radice nera più profonda che conquista l’America bianca e colta (e noi jazzofili in Europa avremmo ammirato per decenni quella foto, facendo collezione di ascolti: il jazz è una musica che venera chi la suona e ogni appassiona­to riconosce i suoi eroi). La foto esce nel gennaio 1959, «Esquire» consacra lo spirito dell’epoca, intuisce che il jazz è al suo massimo; già a marzo muore Lester Young, il primo della foto ad andare via («Goodbye Pork Pie Hat» lo celebrerà in una struggente ballad Mingus); in aprile Miles Davis entra in studio e ne esce con «Kind of Blue». Forse da lì inizia il lento, inesorabil­e declino del jazz – ne possiamo discutere – ma, certo, quella foto in una mattina tersa d’agosto lo celebrava al suo massimo. Un fermo immagine, del presente, del passato e del futuro, anche il nostro. Per questo resta immortale. E non si può che celebrarla, come spetta a tutti veri classici.

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57 maestri (più uno fuori scena) La celebre foto di Art Kane, diventata un’icona del jazz

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