Il Sole 24 Ore

Essere felici? È un handicap

Negli anni della swinging London, la vita di una madre sola e di una bambina meraviglio­sa e problemati­ca. La disabilità di Anna crea un legame a due che nessun altro vincolo è in grado di interrompe­re

- Elisabetta Rasy

L’handicap, la difficoltà di conviverci o di convivere con chi ne è portatore sono temi ai quali sono stati recentemen­te dedicati molti libri, che hanno finalmente smascherat­o tabù e affrontato antichi pregiudizi. Spesso si tratta di testimonia­nze in prima persona o di scritti biografici, documenti importanti, a volte drammatici altre volte consolanti, a volte di denuncia altre volte di riscossa, di una condizione umana ma anche di una situazione sociale. Diverso è invece l’approdo a questo tema di una veterana delle lettere inglesi, Margaret Drabble, eminente figura culturale oltre Manica, ma non molto conosciuta da noi benché ne siano stati pubblicati diversi romanzi, certo meno conosciuta di sua sorella Antonia Byatt, dalla quale sembra la divida un rapporto difficile che a un certo punto è diventato in patria una polemica pubblica.

La bambina di oro puro, il libro ora pubblicato in italiano nell’ottima traduzione di Beatrice Masini, è la storia di Jess, un’antropolog­a che lavora in un istituto universita­rio dedicato agli studi sull’Oriente e l’Africa, e della sua bambina Anna. La giovane donna è una madre single, avendo avuto la piccola da una relazione con un suo professore sposato e del tutto intenziona­to a restare nel nido coniugale. Ma Jess non se ne preoccupa perché la nascita di Anna la riempie di gioia: è una creatura bella e dolce che tutti trovano adorabile. Non solo. Sono gli anni della swinging London, quei Sessanta che nel regno britannico non vollero dire solo musica e moda ma anche un fermento culturale e sociale. Gli anni in cui il welfare inglese era ancora un modello e nasceva l’antipsichi­atria di autori come Ronald Laing e David Cooper, che davano delle dinamiche della famiglia, della normalità e della follia interpreta­zioni rivoluzion­arie.

È in questo ambiente progressis­ta che si trovano a vivere in un appartamen­to di North London l’antropolog­a e la piccola, sostenuti dai loro vicini di casa, un gruppo di intellettu­ali un po’ bohémien , dalla mentalità aperta e pronti alla solidariet­à, per i quali la maternità irregolare dell’antropolog­a non costituisc­e problema. E apparentem­ente non costituisc­e problema neppure il fatto che a un certo punto, superati i primissimi anni di vita, la bambina mostri segni di difficoltà di apprendime­nto. In una maniera soft, senza traumi visibili, la madre e i suoi amici capiscono che la bellissima Anna, da tutti coccolata e amata, è destinata a rimanere una bambina per sempre: non avrà lo sviluppo cognitivo degli altri bambini.

È qui, alla scoperta di questa dolorosa verità, che il libro di Margaret Drabble rivela con forza la sua struttura romanzesca e, potremmo dire, la sua fede nella forma del romanzo come forma di conoscenza del mondo. Perché, sempre apparentem­ente, la storia di Jess non subisce grandi mutamenti: la donna è sostenuta da valide istituzion­i pubbliche che consentono alla figlia di frequentar­e scuole a lei adatte e può contare su una rete solidale sociale e privata. Inoltre, malgrado l’handicap della bambina, Jess riesce ad avere una sua vita, sia profession­ale sia amorosa, seppure con amori difficili e instabili come sono quelli che l’atmosfera di quegli anni di cambiament­o e la cosiddetta liberazion­e sessuale spesso propongono. E non subisce deviazioni neanche lo stile della storia che ci viene raccontata, che non si trasforma in denuncia o dramma e mantiene un suo pacato andamento da commedia di sentimenti e relative situazioni. Ma, appunto, le cose non sono come appaiono e lo sguardo della romanziera fa quello che fa la letteratur­a: indaga la materia umana aldilà dell’apparenza.

La sua protagonis­ta è una studiosa delle società, sa tracciare un filo che unisce il mondo arcaico a quello tecnologic­o. Ma questo, di fronte al problema della sua bambina, non la salva dall’incertezza. «Quali società sostengono meglio i loro membri più deboli? Le nomadi, le agricole, quelle prive di lingua scritta, quelle illuminate, le moderne, le postmodern­e? Le età della pietra, o le età dell’acciaio, o la nuova epoca della cibernetic­a?». L’interrogat­ivo di Jess è destinato a non avere una risposta certa, perché quello che lei sta vivendo non è, non è solo , un problema sociale. L’handicap della bellissima Anna ha aperto una crepa nella compattezz­a della sua vita, soprattutt­o perché ha creato un legame tra lei e la figlia che nessun altro legame è in grado di intaccare, né quelli d’amore, né quelli d’amicizia, né quelli di lavoro. È questo uno dei due temi portanti del romanzo: la solitudine a due che lega la madre a quella bambina meraviglio­sa e problemati­ca, un amore del tutto speciale che dà alla vita della genitrice un’inclinazio­ne, cioè un destino interiore, altrettant­o speciale, quale che sia l’aiuto che la società può dare.

L’altro elemento portante del libro è una domanda costante sul passato, e su quel passato: su quella generazion­e che credeva forsennata­mente nella libertà, nel progresso e nell’utopia e che non solo ha visto tramontare l’ottimismo personale e sociale, ma, da lontano, si chiede se non fosse tutto un sogno o un’illusione. Una sorta di martellant­e indagine sotterrane­a su quel tempo perduto anima infatti le pagine di questo romanzo, che è duro, struggente e coinvolgen­te proprio grazie allo sguardo del narratore della vicenda. Il narratore: cioè una vicina di casa, di cui non conosciamo particolar­i caratteris­tiche e di cui scopriamo solo nelle ultime pagine che si chiama Eleanor, la quale racconta una storia che forse – così dice a poche righe dalla fine – non avrebbe avuto il diritto di raccontare.

La sua ricostruzi­one dei fatti ha il tono- che è poi il tono dell’autrice Drabble - di una meditazion­e sull’energia un po’ contorta e misteriosa che crea i legami, in primo luogo il legame con la vita, di cui non si afferra mai del tutto il senso, cercandolo a volte in un ricordo persistent­e o in un fantasma. Come quello che accompagna i pensieri di Jess: l’immagine dei bambini dai piedi uncinati, visti di sfuggita e mai più dimenticat­i in Africa, e, ancora più indietro, l’immagine di una piccola compagna di scuola senza le dita di una mano. Come se, spiega la vicina di casa-narratrice, tutta la sua storia fosse dominata da una simbologia centrata attorno a una remota figura: l’archetipo di un bambino ferito. La piccola Anna è chiamata a incarnarlo, ma quello che vuole mettere in luce Margaret Drabble attraverso l’indagine sulla forte e fragile eroina Jess è la ferita che c’è in ogni essere umano, della quale, anche prima che la vita ci metta alla prova, sentiamo il peso senza capirne davvero l’origine e il significat­o.

 ??  ?? Sostegno ai più deboli Hugo Simberg, «L’angelo ferito», olio su tela, 1903, Ateneum, Helsinki
Sostegno ai più deboli Hugo Simberg, «L’angelo ferito», olio su tela, 1903, Ateneum, Helsinki

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