Museo spolverato e decolonizzato
Lettera da Bruxelles. È stata rinnovata, tra le polemiche, l’esposizione di Tervuren dedicata all’Africa, aperta nel 1910. Le violenze del colonialismo belga non sono più nascoste: lo sforzo ora è costruire nuovi legami
Venticinque anni fa, agli albori della globalizzazione di fine millenio, dominava la speranza che i rapporti tra i Paesi sarebbero migliorati fino a stemperare il fenomeno del razzismo. Così non è stato. In molti Paesi europei e non, l’immigrazione è fonte di tensioni e violenze. L’inaugurazione di un rinnovato Museo reale dell’Africa centrale a Bruxelles assume in questo contesto un particolare significato. Per tutto il Novecento, l’AfricaMuseum, come è chiamato ora, è stato il riflesso della controversa esperienza coloniale belga, tra le più efferate e crudeli. Per così dire decolonizzato, il nuovo museo vuole diventare un nuovo ponte con l’Africa.
Il palazzo alla periferia di Bruxelles, nel quartiere di Tervuren, è un elegante edificio belle époque costruito nei primi anni del Novecento da Charles Girault, lo stesso architetto che a Parigi firmò il Petit e il Grand Palais. Voluto da Leopoldo II, il museo fu inaugurato dal nipote Alberto I nel 1910. Doveva celebrare i successi belgi in Congo, a dispetto delle critiche internazionali per un colonialismo schiavista e assassino. Joseph Conrad in Cuore di
tenebra, André Gide in Viaggio al Congo e ritorno dal Ciad, e Mark
Twain nel Soliloquio di Re Leopoldo firmarono violente denunce contro il regime belga.
«L’edificio era carico di riferimenti coloniali. A cominciare dalle iniziali di Leopoldo presenti 45 volte solo sulla facciata esterna – spiega Guido Gryseels, il direttore del museo, riaperto al pubblico domenica 9 dicembre dopo cinque anni di lavori e un investimento di poco meno di 70 milioni di euro –. Abbiamo voluto dare all’esposizione permanente una nuova immagine dopo il rinnovamento parziale del 1956. Non nascondiamo più le violenze del governo belga. In tutte le sale il look è stato rivisto, salvo nella sala dedicata ai coccodrilli che mantiene in tutto e per tutto le tracce del vecchio museo».
Il palazzo originale non è stato modificato, solo spolverato e ringiovanito; ma l’ingresso nel Museo è stato spostato e avviene oggi attraverso un edificio moderno costruito nel parco di Tervuren e un tunnel sotterraneo di un centinaio di metri dove ha trovato posto uno dei pezzi forti della collezione bruxellese: una piroga lunga 22,5 metri, pesante 3,5 tonnellate, e ottenuta da un solo e unico tronco d’albero. L’AfricaMuseum è uno dei più ricchi al mondo dedicati al continente africano: conta 130mila oggetti, dieci milioni di specie zoologiche, 60mila campioni di vegetazione tropicale, 15mila tipi di minerali.
All’inaugurazione nei giorni scorsi non ha partecipato Re Filippo, si dice perché il nuovo museo rinnega troppo il regno del suo antenato Leopoldo II. Già nel 2005, in occasione di una esposizione intitolata Mémoire du Congo, l’allora sovrano Alberto II aveva negato la sua presenza. «Per la prima volta da parte di una istituzione pubblica belga – ricorda Jean-Luc Vellut, professore emerito all’Università di Lovanio – una mostra a Bruxelles presentava documenti di accusa provenienti dalle campagne umanitarie dei primi anni del Novecento». L’esposizione fu il primo atto di denuncia di un colonialismo paternalista. In cinque mesi, attirò 130mila visitatori. Successivamente, nel 2012, lo scrittore fiammingo David Van Reybrouck pubblicò il libro Congo (Feltrinelli, 2014), che contribuì a rivelare al Belgio la storia della sua ex colonia, anche quella più nefasta (si veda Il Sole/24 Ore del 9 dicembre 2012). A quasi 60 anni dall’indipendenza del Congo, l’esperienza coloniale rimane nel Paese un nervo scoperto. André Schorochoff, un ex amministratore dell’Unione reale belga per i Paesi d’Oltremare, ha denunciato a proposito del nuovo museo «una visione anti-belga». A La Libre Belgique, lo storico dell’arte di origine congolese Toma Luntumbue ha invece parlato di «museo-wikipedia», troppo legato all’esperienza coloniale. «La giovane generazione belga è fondamentalmente ignorante del periodo coloniale e della storia dell’Africa», nota ancora il professor Vellut.
Nel nuovo museo, tutelato in quanto monumento storico, permangono le testimonianze dell’era coloniale, a cominciare dalle scritte dedicate ai belgi che «portarono la civiltà in Congo». Su una delle pareti restano i nomi dei 1.508 cittadini belgi uccisi nella colonia africana tra il 1876 e il 1908. Sulle finestre, dall’altra parte del corridoio, è stato aggiunto ora il nome dei sette congolesi morti di freddo o di malattia in uno zoo umano voluto ai tempi dell’esposizione coloniale del 1897. «Quando brilla il sole, il loro nome ricopre quello delle vittime belghe», ha fatto notare il direttore Gryseels.
Nel recuperare una prospettiva storica dell’esperienza coloniale belga, il nuovo museo vuole contribuire a nuovi legami con l’Africa. Una delle sale dell’edificio è dedicata alla storia congolese prima dell’arrivo dei belgi. Un’altra ospita fino a 212 oggetti d’arte locale. Qua e là i curatori hanno disposto moderne opere d’arte firmate da una decina di artisti africani. Chris Dercon, prossimo direttore (belga) del Grand Palais a Parigi, è dell’avviso che la dirigenza del museo ha dimostrato «autocritica senza cinismo, empatia senza carità».
Dopo avere creato sul Quai Branly di Parigi un museo delle arti primitive o delle arti e civiltà d’Africa, Asia, Oceania e Americhe, la Francia sta valutando se e come rimandare in patria opere d’arte provenienti dalle ex colonie. Dal canto suo, la Germania ha già trasferito al Museo di Dundo, in Angola, oggetti locali precedentemente ospitati in diverse città tedesche. Nel 1970, il governo belga aveva firmato con il regime di Joseph-Désiré Mobutu un accordo in vista della creazione di un grande museo africano in Zaire, l’ex Congo. L’operazione fallì dopo che il dittatore si appropriò degli oggetti preziosi tornati dal Belgio.
A Dakar, in Senegal, è stato appena inaugurato un nuovo Museo delle civiltà nere, anche con l’obiettivo di attirare oggetti ora dispersi in Europa. «Sono aperto all’idea di una restituzione delle opere d’arte – sostiene oggi il direttore Gryseels –. Prima di tutto bisognerà fare un inventario preciso, in piena trasparenza. Non escludo restituzioni, caso per caso, di doppioni o di opere emblematiche per completare collezioni nei musei congolesi (…) Ma prima bisogna definire un quadro preciso: chi può chiedere una restituzione? Secondo quali criteri? Cosa significa acquisizione illegale ai tempi della colonizzazione?».