Sghignazzare con lo Sgargabonzi
Lo si avverte in queste cene depressive, in mezzo ad amici e conoscenti che non si capacitano, lo si capisce leggendo i tweet su Twitter: gli italiani hanno un disperato bisogno di ridere. Ma non ridere verde per questa politica demenziale: serve la rimozione, la fuga dalla realtà, il contrario di Crozza, un anti-Crozza che ci porti via. Buone notizie: questo qualcosa, questo qualcuno esiste. È appena uscito un nuovo libro dello Sgargabonzi, s'intitola Jocelyn uccide ancora ed è un capolavoro di intelligenza, fantasia, umorismo, scritto per di più con una lingua – cioè un lessico, una sintassi, un senso per la sfumatura e la parola giusta (mettiamo: intuzzare, in una scena topica del libro che lascio al lettore la gioia di incontrare) – che la gran parte degli scrittori seri italiani può solo sognarsi di possedere.
Si tratterebbe adesso di dare sostanza a questo elogio, argomentare per convincere il lettore che questo sconosciuto con un nome scemo (Sgargabonzi è il nome di una delle carte dei tarocchi di Jacovitti: il nostro beniamino, che si chiama Alessandro Gori, ha un debole per i fumetti) merita queste iperboli. È difficile farlo con i libri normali, è quasi impossibile con i libri comici, specie nei confini stretti di una recensione: la comicità richiede tempo, spazio, cioè righe di testo per crescere ed espandersi, e ad antologizzarla si rovina. In più, Jocelyn uccide ancora non è un libro comico ma una raccolta di cinquanta pezzi comici o tragicomici: bisognerebbe mettersi a distinguere.
Invece isoliamo un solo tema o modo: l’autobiografia ironica. È un modo diffuso tra i comici: consiste nel parlare di sé mostrandosi deboli, goffi, soccombenti. Villaggio lo faceva con la sua proiezione grottesca Fantozzi; Amy Schumer e Louis CK lo fanno nei loro monologhi, esibendo difetti e faux pas; Rocco Tanica lo fa in certe sue cose recenti pubblicate su Medium.com, raccontando benissimo esperienze di vita di solito imbarazzanti. Lo Sgargabonzi lo fa esagerando, calcando la mano fino all'autoumiliazione, è l’underdog degli underdog, e a chi lo legge o ascolta negli spettacoli dal vivo (per ora pochi club soprattutto nel centro-nord) dà la liberatoria sensazione di veder agite le proprie ansie relazionali senza doverle vivere.
In questa manovra di auto-annichilimento il corpo e l’abito aiutano: lo Sgargabonzi si presenta sul palco con gli stessi pantaloni da pescatore con tasconi laterali che indossa ogni giorno, lo stesso cappellino con visiera (a quarant’anni), la stessa maglietta tesa sull’addome o, nelle stagioni fredde, cito, la «felpa in pile senza niente sotto, la dermatite, la soccombenza esistenziale che mi si legge in faccia»; e ha l’aspetto, la postura, la ruvidità e l’accento di un mezzadro toscano alla Fucini («Io nasco in una frazione di mille abitanti in mezzo alla Val di Chiana, che a sua volta nasce e vive tutta intorno all’eccellenza locale: la fabbrica di cucine di lusso Del Tongo. Qua siamo tutti figli di consanguinei, basta tentare di farsi dare il resto giusto da qualsiasi elettrauto per accorgersene»). Insomma lo Sgargabonzi non finge. E questo è rinfrancante perché più s'invecchia e più si ha l’impressione che intorno a sé tutti recitino una parte. È una verità assodata da decenni, anzi da secoli (bibliografia: Molière, Goffman eccetera), ma che in Italia, specie nella sfera pubblica italiana, prende alla gola. Tutti sono lì, divorati dall’ansia, a vendersi per qualcosa di meglio di ciò che sono: in TV, in rete, sui giornali, ovunque. Invece lo Sgargabonzi non simula, si mostra nudo, e dato che l’uomo, e l’italiano in particolare, è un essere ridicolo, il catalogo delle sue meschinità provoca non solo un raro divertimento, ma persino la famosa Catarsi. Sia chiaro, una catarsi di questo tipo:
«Ero appena uscito da quell’incubo lynchano che era il Liceo Classico aretino degli anni Novanta, un intingolo di Maestri Muratori, perifrastiche passive e punizioni corporali. Per la prima volta nella vita avevo perso un sacco di chili grazie alle pastiglie di miglio, e per la sicurezza acquisita portavo cappellini mediorientali comprati a qualche banchino di Arezzo Wave. Delle culture diverse dalla mia me ne importava una bella sega, solo che perdendo i capelli me li ero rasati a zero per non dover fare il conto alla rovescia. Magari col cappellino appaio pure figo, pensavo, tipo un illuminista, un mezzo pazzo. E invece no, che io quando ho il cuoio capelluto a contatto col tessuto sgorgo questa specie di resina della morte»
– mai detto che debba piacere a tutti.