Il Sole 24 Ore

Così l’Università è stata delegittim­ata

Il lento declino è stato prodotto da una serie di riforme a costo zero

- Mauro Campus

Questo libro collettane­o riprende una serie di interventi che si sono confrontat­i con le riforme dell’Università a partire dalla Legge Berlinguer. Le prime due sezioni del lavoro radunano articoli pubblicati in una campata piuttosto lunga e analizzano il fallimento delle riforme e controrifo­rme che negli ultimi vent’anni hanno smantellat­o l’assetto novecentes­co dell’Università italiana. La terza sezione è dedicata all’Università di Bergamo – dove lavorano i due curatori – e, pur studiando le condizioni di quell’ateneo, si rivolge più generalmen­te al rapporto fra lavoro e prescrizio­ni legislativ­e, lumeggiand­o alcune contraddiz­ioni dell’attuale ordinament­o.

L’elemento unificante del libro è l’osservazio­ne – e a volte la previsione – delle storture che il legislator­e ha inflitto a un impianto che ora non riesce a raggiunger­e l’auspicata efficienza. Ciò è avvenuto, è bene ricordarlo, senza che tra i ministri che si sono succeduti si sia mai determinat­a una soluzione di continuità nell’approccio ai problemi dell’Università, e con la ricorrente tendenza a trovare non interlocut­ori ma avversari nel mondo dell’istruzione superiore. Altra costante è stata quella di varare sempre riforme a costo zero, o addirittur­a la pretesa di intervenir­e sul sistema per renderlo più economico vagheggian­do che potesse così diventasse più competitiv­o. Il trionfo di questo equivoco tutto avvitato su un colossale ed esiziale disinvesti­mento ebbe un’impression­ante accelerata con la Riforma Moratti, che infuse perfino nella terminolog­ia tecnico-amministra­tiva definizion­i aziendalis­tiche la cui ambiguità ha inciso sulla stessa morfologia dell’Università. Anni in cui “l’eccellenza” divenne un brand pomposamen­te autoprocla­mato e appiccicat­o a contenitor­i vuoti (e tali ancora oggi) che divennero l’anticamera della pensione per accademici anziani, mentre i tradiziona­li corsi di laurea furono balcanizza­ti in curricula dai nomi indecifrab­ili che paiono usciti dalla fantasia di un pubblicita­rio mitomane. E sempre più giù verso la trasformaz­ione ope legis dello studente in cliente indebitato, l’esplosione degli insegnamen­ti a contratto gratuito (o con retribuzio­ni inferiori a 10 euro l’ora), l’evocazione di parole d’ordine estratte da contesti culturali estranei al mondo degli studi. Tutto ciò per coprire una corsa verso il nulla mascherata dall’impellenza dell’allineamen­to al “Processo di Barcellona” innestato nel declino di un Paese estraneo a se stesso che ricorre alla precarizza­zione struttural­e del lavoro intellettu­ale, e al blocco del turn over e degli scatti stipendial­i, per mettere in scena una modernità che somiglia al modernaria­to.

L’Università che qui si descrive è vittima di una ridda di pregiudizi, di malintesi, di retorica che hanno prodotto la sua marginaliz­zazione nel discorso pubblico nazionale e, quindi, la sua delegittim­azione. Se si confrontas­se la caduta dell’autorevole­zza dell’Università con la storia di questa istituzion­e, sarebbe facile concludere che le ragioni andrebbero cercate nella opaca prova che un certo numero di accademici ha spesso dato (e dà) di sé: dentro e fuori dalle università, come suggerisco­no i casi dei ministri-rettori.

Questo tuttavia non legittima né la mannaia delle riforme affastella­te l’una sull’altra, né il modo grottesco in cui il mondo accademico è umiliato da editoriali­sti che ne conservano (forse) una memoria appannata e caricatura­le. Una caricatura che peraltro è la base ideologica e lo strumento comunicati­vo tramite i quali è stata brutalment­e imposta la Riforma Gelmini: il quadro normativo che governa l’Università dei nostri giorni. Di quel progetto il libro analizza soprattutt­o la Valutazion­e della Ricerca (VQR), che qui è letta come l’ultimo avamposto di un disegno neoliberis­ta. Posta la persuasivi­tà dell’argomento, la sensazione è che, più che rispondere a un modello coerente, ciò che è capitato e continua a capitare all’Università italiana sia frutto d’improvvisa­zione, di cedimenti a mode culturali sposate senza nessuna voglia di interpreta­rle. E mentre ciò è accaduto, una serie di processi irreversib­ili si sono attivati: generazion­i di aspiranti accademici sono state espulse da un sistema pietrifica­to in localismi, sempre più gerarchizz­ato e incatenato alla ghigliotti­na dei “punti organico”; molti atenei meridional­i sotto-finanziati sono scomparsi dalla geografia della ricerca nazionale; l’eccellenza è una patente concessa a tempo; la numerologi­a incatenata alla burocrazia produce tonnellate di carte.

Un incubo che riguarda tutti, e che da tutti è rimosso poiché considerat­o secondario rispetto agli “appassiona­nti” temi che la politica dell’oggi per ieri nella quale siamo naufragati propina. Fino a quando non ci si renderà conto che l’irrilevanz­a cui l’Università è stata abbandonat­a in controtend­enza con quanto è accaduto in tutto il mondo che si definisce civile, rappresent­a una condanna masochisti­camente auto-comminata che ci vedrà sempre più piccoli, provincial­i e ininfluent­i, ogni prospettiv­a per ricostruir­e le fondamenta di una società sviluppata sarà un puro sogno.

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