Così l’Università è stata delegittimata
Il lento declino è stato prodotto da una serie di riforme a costo zero
Questo libro collettaneo riprende una serie di interventi che si sono confrontati con le riforme dell’Università a partire dalla Legge Berlinguer. Le prime due sezioni del lavoro radunano articoli pubblicati in una campata piuttosto lunga e analizzano il fallimento delle riforme e controriforme che negli ultimi vent’anni hanno smantellato l’assetto novecentesco dell’Università italiana. La terza sezione è dedicata all’Università di Bergamo – dove lavorano i due curatori – e, pur studiando le condizioni di quell’ateneo, si rivolge più generalmente al rapporto fra lavoro e prescrizioni legislative, lumeggiando alcune contraddizioni dell’attuale ordinamento.
L’elemento unificante del libro è l’osservazione – e a volte la previsione – delle storture che il legislatore ha inflitto a un impianto che ora non riesce a raggiungere l’auspicata efficienza. Ciò è avvenuto, è bene ricordarlo, senza che tra i ministri che si sono succeduti si sia mai determinata una soluzione di continuità nell’approccio ai problemi dell’Università, e con la ricorrente tendenza a trovare non interlocutori ma avversari nel mondo dell’istruzione superiore. Altra costante è stata quella di varare sempre riforme a costo zero, o addirittura la pretesa di intervenire sul sistema per renderlo più economico vagheggiando che potesse così diventasse più competitivo. Il trionfo di questo equivoco tutto avvitato su un colossale ed esiziale disinvestimento ebbe un’impressionante accelerata con la Riforma Moratti, che infuse perfino nella terminologia tecnico-amministrativa definizioni aziendalistiche la cui ambiguità ha inciso sulla stessa morfologia dell’Università. Anni in cui “l’eccellenza” divenne un brand pomposamente autoproclamato e appiccicato a contenitori vuoti (e tali ancora oggi) che divennero l’anticamera della pensione per accademici anziani, mentre i tradizionali corsi di laurea furono balcanizzati in curricula dai nomi indecifrabili che paiono usciti dalla fantasia di un pubblicitario mitomane. E sempre più giù verso la trasformazione ope legis dello studente in cliente indebitato, l’esplosione degli insegnamenti a contratto gratuito (o con retribuzioni inferiori a 10 euro l’ora), l’evocazione di parole d’ordine estratte da contesti culturali estranei al mondo degli studi. Tutto ciò per coprire una corsa verso il nulla mascherata dall’impellenza dell’allineamento al “Processo di Barcellona” innestato nel declino di un Paese estraneo a se stesso che ricorre alla precarizzazione strutturale del lavoro intellettuale, e al blocco del turn over e degli scatti stipendiali, per mettere in scena una modernità che somiglia al modernariato.
L’Università che qui si descrive è vittima di una ridda di pregiudizi, di malintesi, di retorica che hanno prodotto la sua marginalizzazione nel discorso pubblico nazionale e, quindi, la sua delegittimazione. Se si confrontasse la caduta dell’autorevolezza dell’Università con la storia di questa istituzione, sarebbe facile concludere che le ragioni andrebbero cercate nella opaca prova che un certo numero di accademici ha spesso dato (e dà) di sé: dentro e fuori dalle università, come suggeriscono i casi dei ministri-rettori.
Questo tuttavia non legittima né la mannaia delle riforme affastellate l’una sull’altra, né il modo grottesco in cui il mondo accademico è umiliato da editorialisti che ne conservano (forse) una memoria appannata e caricaturale. Una caricatura che peraltro è la base ideologica e lo strumento comunicativo tramite i quali è stata brutalmente imposta la Riforma Gelmini: il quadro normativo che governa l’Università dei nostri giorni. Di quel progetto il libro analizza soprattutto la Valutazione della Ricerca (VQR), che qui è letta come l’ultimo avamposto di un disegno neoliberista. Posta la persuasività dell’argomento, la sensazione è che, più che rispondere a un modello coerente, ciò che è capitato e continua a capitare all’Università italiana sia frutto d’improvvisazione, di cedimenti a mode culturali sposate senza nessuna voglia di interpretarle. E mentre ciò è accaduto, una serie di processi irreversibili si sono attivati: generazioni di aspiranti accademici sono state espulse da un sistema pietrificato in localismi, sempre più gerarchizzato e incatenato alla ghigliottina dei “punti organico”; molti atenei meridionali sotto-finanziati sono scomparsi dalla geografia della ricerca nazionale; l’eccellenza è una patente concessa a tempo; la numerologia incatenata alla burocrazia produce tonnellate di carte.
Un incubo che riguarda tutti, e che da tutti è rimosso poiché considerato secondario rispetto agli “appassionanti” temi che la politica dell’oggi per ieri nella quale siamo naufragati propina. Fino a quando non ci si renderà conto che l’irrilevanza cui l’Università è stata abbandonata in controtendenza con quanto è accaduto in tutto il mondo che si definisce civile, rappresenta una condanna masochisticamente auto-comminata che ci vedrà sempre più piccoli, provinciali e ininfluenti, ogni prospettiva per ricostruire le fondamenta di una società sviluppata sarà un puro sogno.