Trump e il potere della paura
«Zero chance». Nell’agosto del 2010 Steve Bannon, piccolo produttore di documentari gridati di centro destra, riceve una telefonata. Dall’altra parte del filo qualcuno gli parla di una eventuale candidatura per le presidenziali di Donald Trump. Lui gli risponde che no... Trump non ha nessuna possibilità. È l’inizio della storia di una delle più incredibili campagne elettorali che hanno portato il miliardario conduttore televisivo a conquistare la Casa Bianca.
Sei anni dopo, il 21 giugno 2016, Donald Trump accetta la nomination repubblicana. Il 13 agosto, un sabato mattina, Bannon, torna alla Trump Tower per guidare la squadra del più improbabile candidato
commander in chief della storia degli Stati Uniti. L’outsider Trump è riuscito a ottenere la nomination. Ma la sfida sembra davvero impossibile: a tre mesi dal voto, Hillary Clinton è in vantaggio in tutti gli stati chiave di almeno due cifre percentuali, in alcuni stati anche con più di 20 punti. Bannon accetta la sfida. A modo suo. Tracciando la strada da seguire al candidato. Che esegue, passo dopo passo.
Punto primo del vangelo secon
do Bannon: bisogna fermare l’im
migrazione illegale e limitare l’immigrazione legale per “riprendersi” la sovranità. Punto secondo: bisogna riportare le industrie manifatturiere negli Stati Uniti. Punto terzo: uscire da tutte le “guerre straniere”. Le idee di Bannon diventano le idee di Trump. Pochi giorni dopo, in un discorso a Detroit, il candidato comincia ad attaccare Hillary, la candidata del passato, contrapposta alla loro campagna che guarda al futuro. Riprende come cavallo di battaglia lo slogan fortunato di Reagan. Se funzionò allora può sempre funzionare una seconda volta, la gente ha la memoria corta: Make America
great again. Un messaggio semplice. Che arriva dritto. Il finale è noto.
Trump è un condottiero a stelle e strisce che fa della divisione la sua forza. D’altronde già il titolo del libro di Bob Woodward Fear. Trump
in the White House, la dice lunga sulla dottrina politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Woodward nell’epigrafe che apre il libro cita una frase del candidato raccolta in una sua intervista durante la corsa elettorale: «Il vero potere è paura». Divide et impera, dicevano i latini che lo avevano già capito. Woodward ricostruisce attraverso le testimonianze di chi ha vissuto da vicino la rincorsa elettorale e poi i primi due anni di presidenza Trump. Lo fa a suo modo, con rigore, onestà intellettuale e curiosità da cronista di razza. Attraverso migliaia di documenti, interviste e telefonate, catalogate e messe in fila lungo 400 pagine che scorrono come un romanzo. Trump, spiazzato dai tanti aneddoti raccontati dal libro - i dossier scomparsi dal suo tavolo prima della firma, i commenti dei collaboratori sulle sue iperboli - lo ha bollato come fiction. Ma finzione non è. Il cronista del Watergate ricostruisce sul campo il day by
day alla Casa Bianca. Gli episodi raccontati spaziano su tutto lo scibile del trumpismo: Iran, Russia, Hillary, Nato, Cina, dazi e war trade, Israele e Hezbollah, Afghanistan e Siria. Molti episodi sono noti, usciti con le anticipazioni del libro che in America è stato tra i più venduti di sempre: si parla di oltre 750mila copie nel primo weekend in libreria.
Il personaggio Trump piace o non piace, ma “tira” direbbero gli editori. Comunque la si voglia leggere, questo presidente ha cambiato il modo di fare politica. Le sue decisioni sono sempre precedute dagli annunci sui social: «Sono l’Ernest Hemingway dei 140 caratteri». Bannon lo paragona a Tiberio Gracco, il tribuno della plebe dei “Populares”, politico nell’antica Roma che fece approvare una legge agraria per trasferire la proprietà della terra dai ricchi ai poveri, solo che Trump è miliardario. Prima di vincere le presidenziali si definiva «popularista». Bannon, racconta Woodward, gli ripete più volte la parola «populista» ma all’ennesimo diniego si accorge che il tycoon non ne conosce il significato. «No, sono popularista», nel senso di «essere popolare tra la gente»: Trump popolare lo era già, ma più che per le sue imprese imprenditoriali per gli anni passati sulle tv americane negli orari delle casalinghe con The
Apprentice. La comunicazione di Trump è il vero fatto dirompente. Se il populismo nel passato era la propaganda plebiscitaria nelle arene, i piazzali Venezia, il mutamento delle costituzioni, i dispotismi e le dittature, con Trump la democrazia rappresentativa è evoluta in senso maggioritarista, senza incrinare il sistema costituzionale. È il segno di un populismo nuovo. Forse davvero lui non conosce il significato del termine. Ma ha imparato decisamente a praticarlo, meglio di tutti.