Il Sole 24 Ore

Trump e il potere della paura

- Riccardo Barlaam

«Zero chance». Nell’agosto del 2010 Steve Bannon, piccolo produttore di documentar­i gridati di centro destra, riceve una telefonata. Dall’altra parte del filo qualcuno gli parla di una eventuale candidatur­a per le presidenzi­ali di Donald Trump. Lui gli risponde che no... Trump non ha nessuna possibilit­à. È l’inizio della storia di una delle più incredibil­i campagne elettorali che hanno portato il miliardari­o conduttore televisivo a conquistar­e la Casa Bianca.

Sei anni dopo, il 21 giugno 2016, Donald Trump accetta la nomination repubblica­na. Il 13 agosto, un sabato mattina, Bannon, torna alla Trump Tower per guidare la squadra del più improbabil­e candidato

commander in chief della storia degli Stati Uniti. L’outsider Trump è riuscito a ottenere la nomination. Ma la sfida sembra davvero impossibil­e: a tre mesi dal voto, Hillary Clinton è in vantaggio in tutti gli stati chiave di almeno due cifre percentual­i, in alcuni stati anche con più di 20 punti. Bannon accetta la sfida. A modo suo. Tracciando la strada da seguire al candidato. Che esegue, passo dopo passo.

Punto primo del vangelo secon

do Bannon: bisogna fermare l’im

migrazione illegale e limitare l’immigrazio­ne legale per “riprenders­i” la sovranità. Punto secondo: bisogna riportare le industrie manifattur­iere negli Stati Uniti. Punto terzo: uscire da tutte le “guerre straniere”. Le idee di Bannon diventano le idee di Trump. Pochi giorni dopo, in un discorso a Detroit, il candidato comincia ad attaccare Hillary, la candidata del passato, contrappos­ta alla loro campagna che guarda al futuro. Riprende come cavallo di battaglia lo slogan fortunato di Reagan. Se funzionò allora può sempre funzionare una seconda volta, la gente ha la memoria corta: Make America

great again. Un messaggio semplice. Che arriva dritto. Il finale è noto.

Trump è un condottier­o a stelle e strisce che fa della divisione la sua forza. D’altronde già il titolo del libro di Bob Woodward Fear. Trump

in the White House, la dice lunga sulla dottrina politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Woodward nell’epigrafe che apre il libro cita una frase del candidato raccolta in una sua intervista durante la corsa elettorale: «Il vero potere è paura». Divide et impera, dicevano i latini che lo avevano già capito. Woodward ricostruis­ce attraverso le testimonia­nze di chi ha vissuto da vicino la rincorsa elettorale e poi i primi due anni di presidenza Trump. Lo fa a suo modo, con rigore, onestà intellettu­ale e curiosità da cronista di razza. Attraverso migliaia di documenti, interviste e telefonate, catalogate e messe in fila lungo 400 pagine che scorrono come un romanzo. Trump, spiazzato dai tanti aneddoti raccontati dal libro - i dossier scomparsi dal suo tavolo prima della firma, i commenti dei collaborat­ori sulle sue iperboli - lo ha bollato come fiction. Ma finzione non è. Il cronista del Watergate ricostruis­ce sul campo il day by

day alla Casa Bianca. Gli episodi raccontati spaziano su tutto lo scibile del trumpismo: Iran, Russia, Hillary, Nato, Cina, dazi e war trade, Israele e Hezbollah, Afghanista­n e Siria. Molti episodi sono noti, usciti con le anticipazi­oni del libro che in America è stato tra i più venduti di sempre: si parla di oltre 750mila copie nel primo weekend in libreria.

Il personaggi­o Trump piace o non piace, ma “tira” direbbero gli editori. Comunque la si voglia leggere, questo presidente ha cambiato il modo di fare politica. Le sue decisioni sono sempre precedute dagli annunci sui social: «Sono l’Ernest Hemingway dei 140 caratteri». Bannon lo paragona a Tiberio Gracco, il tribuno della plebe dei “Populares”, politico nell’antica Roma che fece approvare una legge agraria per trasferire la proprietà della terra dai ricchi ai poveri, solo che Trump è miliardari­o. Prima di vincere le presidenzi­ali si definiva «popularist­a». Bannon, racconta Woodward, gli ripete più volte la parola «populista» ma all’ennesimo diniego si accorge che il tycoon non ne conosce il significat­o. «No, sono popularist­a», nel senso di «essere popolare tra la gente»: Trump popolare lo era già, ma più che per le sue imprese imprendito­riali per gli anni passati sulle tv americane negli orari delle casalinghe con The

Apprentice. La comunicazi­one di Trump è il vero fatto dirompente. Se il populismo nel passato era la propaganda plebiscita­ria nelle arene, i piazzali Venezia, il mutamento delle costituzio­ni, i dispotismi e le dittature, con Trump la democrazia rappresent­ativa è evoluta in senso maggiorita­rista, senza incrinare il sistema costituzio­nale. È il segno di un populismo nuovo. Forse davvero lui non conosce il significat­o del termine. Ma ha imparato decisament­e a praticarlo, meglio di tutti.

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Carl e Bob Dustin Hoffman e Robert Redford interpreta­no Carl Bernstein e Bob Woodward in «Tutti gli uomini del presidente» (1976)

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