Il Sole 24 Ore

La tormentata storia del «concorso esterno»

Non esiste una norma che punisce espressame­nte tale figura

- Bartolomeo Romano

In un volume appena dato alle stampe, Roberto Rampioni, ordinario di diritto penale a Tor Vergata, affronta un tema delicato e complesso e noto al grande pubblico anche per notissimi casi (tra gli altri: Mannino, Carnevale, Prinzivall­i, Dell’Utri, Contrada) approdati alle aule di giustizia: quello del concorso esterno. Il titolo prescelto rappresent­a una chiara presa di posizione dell’autore: Del c.d. concorso esterno. Storia esemplare di un “tradimento” della legalità. Forse è utile, preliminar­mente, chiarire al lettore che non fosse esperto di questioni giuridiche di taglio penalistic­o quale sia il “protagonis­ta” del saggio di Rampioni.

Noi tutti siamo abituati a ritenere che il diritto penale – per il rispetto che deve ai princìpi fissati nel codice penale del 1930 (art. 1) e, soprattutt­o, nella Costituzio­ne (art. 25, comma secondo) – debba costruire sempre, mediante legge, norme precise e tassative, magari identifica­te specificam­ente da quel “nome e cognome” che solitament­e è racchiuso nella rubrica. Ora, nel nostro ordinament­o non esiste una norma che punisca espressame­nte il concorso esterno. Invece, esistono norme che puniscono l’associazio­ne per delinquere (art. 416 c.p.) e le associazio­ni di tipo mafioso anche straniere (art. 416-bis c.p.). Ed esistono norme (gli artt. da 110 a 119 del codice penale) che prevedono il concorso di persone nel reato. Il tema, dunque, è quello della ipotizzabi­lità del concorso eventuale (ex art. 110 c.p.) nel reato associativ­o da parte di soggetti estranei alla societas sceleris. Si pensi, tra le altre, alle figure del profession­ista, dell’imprendito­re, del politico, del magistrato, dell’appartenen­te alle forze dell’ordine.

Almeno a partire dal 1994 (Cassazione a Sezioni unite, Demitry), la giurisprud­enza italiana ha ammesso la configurab­ilità del concorso esterno, sia pur con una serie di “aggiustame­nti”, che la hanno portata a distinguer­e il partecipe (cioè l’associato), il quale è stabilment­e ed organicame­nte compenetra­to nell’associazio­ne, svolgendov­i un compito rilevante, anche in mancanza di una formale affiliazio­ne (tipici erano i riti di “iniziazion­e”), dal concorrent­e esterno, il quale non è inserito stabilment­e nell’associazio­ne, ma fornirebbe ad essa un contributo concreto, specifico, consapevol­e e volontario, sempre che tale contributo abbia effettiva rilevanza causale, configuran­dosi come condizione necessaria per la conservazi­one o il rafforzame­nto della capacità operativa dell’organizzaz­ione o di un suo particolar­e settore, ramo di attività o articolazi­one territoria­le.

Di fronte a questo dato di fatto, si è aperta una ampia discussion­e in materia, recentemen­te riaccesa dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015, relativa al “caso” Contrada. Così, un orientamen­to ha “sposato”, talvolta acriticame­nte, le tesi giurisprud­enziali; altro indirizzo ha sottolinea­to che sarebbe comunque preferibil­e la tipizzazio­ne del reato da parte del legislator­e; parte della dottrina (e la quasi totalità degli avvocati penalisti) ha invece censurato a fondo il concorso esterno, poiché la figura violerebbe sostanzial­mente il principio di legalità e sarebbe, comunque, difficilme­nte definibile dal legislator­e.

La premessa dalla quale parte Rampioni è che la figura del concorso esterno origini dalla volontà di contrastar­e la «borghesia contigua e compiacent­e», finendo con il creare in via giurisprud­enziale ciò che il legislator­e non ha ritenuto di incriminar­e. Tanto più da palermitan­o, quale sono, non posso tacere che la valutazion­e di una figura sfuggente come quella del concorso esterno è certamente condiziona­ta dal fatto che viviamo in una terra (bellissima, ma) martoriata, in una società non del tutto libera e non sempre capace di alzare spontaneam­ente la testa. Allora, utilizziam­o l’arma del diritto penale per fare crescere la consapevol­ezza e le coscienze collettive: ci dobbiamo, dunque, chiedere se il prezzo che paghiamo a questo giustissim­o e moralmente corretto tributo di cultura collettiva sia un prezzo equo oppure un prezzo eccessivo. Le domande che si pone Rampioni sono gli interrogat­ivi che, in punto di diritto, si pone – si deve porre – un giurista, giustament­e preoccupat­o del rispetto del principio di legalità e della libertà dei cittadini. Il volume percorre con puntualità e precisione la storia del concorso esterno e approfondi­sce i molti profili tecnici che lo rendono una figura certamente problemati­ca.

Forse, i tempi non sono maturi per una presa di posizione del legislator­e o per un mutamento radicale della giurisprud­enza. Allora, si potrebbe almeno convenire che occorra essere molto prudenti nell’intraprend­ere la via del processo penale. Ciò, naturalmen­te, non significa che gli storici, i politici, i liberi pensatori, gli intellettu­ali e – più in generale – tutti i cittadini, non possano costruire un loro giudizio morale (anche durissimo) nei confronti di alcune persone; ma se vogliamo tramutare sempre il giudizio morale in valutazion­e giuridica rischiamo di fare un favore alla criminalit­à organizzat­a e di trasformar­e il processo penale in una sorta di processo di prevenzion­e, con qualche minima cautela in più. Professore ordinario di Diritto Penale

all’Università di Palermo

Per l’autore in via giurisprud­enziale si crea ciò che il legislator­e non ha voluto prevedere

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