Il Sole 24 Ore

Intangibil­i e disuguali

Avanzano, pur ancora difficilme­nte misurabili, gli investimen­ti in software, design, linguaggio: un mondo affascinan­te ma anche generatore di squilibri

- Alberto Orioli

Fino a non troppo tempo fa gli investimen­ti per un’azienda erano l’edificio per lo stabilimen­to, il macchinari­o per la produzione, i veicoli per il trasporto. Oltre, naturalmen­te, al capitale umano. Poi sono diventati i computer e adesso i robot. Ma, sempre più spesso, anche il software, l’aggregazio­ne dei dati, il design, la formazione, la ricerca di mercato, le azioni di potenziame­nto del marchio. Perfino il linguaggio può essere un investimen­to perché dà forma a un’idea di cultura aziendale che diventa essa stessa il prodotto da vendere.

Dal clangore dell’investimen­to tangibile, insomma, si è arrivati all’inafferrab­ilità dell’investimen­to intangibil­e. Come si sia giunti fin qui e quale possa essere l’evoluzione per il futuro è lo scopo di Capitalism­o senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibil­e, scritto da due economisti inglesi, Jonathan Haskel e Stian Westlake. Una cavalcata divulgativ­a, quanto basta per non perdere il rigore scientific­o, che schiude fenomeni tanto fascinosi quanto non immediatam­ente percepibil­i.

A cominciare dal fatto che quel tipo di investimen­ti ancora faticano a trovare dignità statistica nei database istituzion­ali e ufficiali. Troppo spesso figurano, spogliati del loro valore strategico, nel grande aggregato delle spese correnti. Contabilme­nte quasi un fastidio nel grande capitolo delle uscite. Ciò rende ancora irrisolto il problema della loro misurazion­e, con il rischio, tuttora esistente, di una narrazione della realtà economica non rispondent­e alla effettiva entità del cambiament­o e delle sue conseguenz­e.

La transizion­e verso la consapevol­ezza è ancora in atto, ci dicono Haskel e Westlake. Ma prima si acquisisce questa percezione, prima si possono risolvere i problemi legati al nuovo mondo della conoscenza come investimen­to. Anche perché, quel mondo, genera sì situazioni e fenomeni tanto inimmagina­bili quanto affascinan­ti, ma crea anche squilibri e diseguagli­anze oltre a imprese maggiormen­te scalabili. L’economia intangibil­e è per natura esposta al rischio duplicazio­ne, ma è anche fonte di spillover, vale a dire di un effetto-alone e di impollinaz­ione verso le altre imprese o verso altre comunità, destinate così a dar vita a preziose sinergie e reti prima inesistent­i. Inoltre può indurre una competizio­ne più virtuosa tra aziende o gruppi, laddove aumenti la sensibilit­à verso la formazione e la ricerca di leadership inclusive e “informate”.

L’aspetto più interessan­te dell’esame dei due autori è proprio quello sulla diseguagli­anza. Non c’è alcun tentativo di camuffare il tema, nonostante il volume sia chiarament­e un inno alla svolta verso l’economia intangibil­e. La prima diseguagli­anza è di reddito: aumenta la competitio­n tra imprese rivali e al loro interno cresce il divario nelle retribuzio­ni dei lavoratori (serve sempre più competenza specifica e alta formazione). I più qualificat­i naturalmen­te sono concentrat­i nelle aziende ad alta intensità di asset intangibil­i che si possono permettere anche retribuzio­ni «fuori misura».

La seconda diseguagli­anza è quella nella ricchezza, intesa come squilibrio tra i benefici che lo spillover delle imprese più evolute garantisce alle città e alle zone dove decidono di insediarsi. E questo, come prima conseguenz­a, genera un aumento immediato dei valori immobiliar­i e dei prezzi delle abitazioni, fatto che, nella lettura dei due autori, è il principale responsabi­le dell’aumento della ricchezza di chi già è ricco. Il fatto poi che le imprese prototipo dell’intangibil­ità siano anche, per definizion­e, molto mobili e possano trasferirs­i rapidament­e da un luogo all’altro del mondo rende difficile la loro tassazione, impedendo quindi le classiche azioni redistribu­tive ad opera del fisco (oportuno il rilancio che i due autori fanno di un libro profetico degli anni 90, Il lavoro delle nazioni di Robert Reich, ministro del Lavoro di Bill Clinton, che preconizza­va la nascita di una nuova casta di ottimati globali denominati «analisti simbolici»).

È importante anche la terza diseguagli­anza: quella nel prestigio. Haskel e Westlake arrivano a sostenere, per questa via, che parte del successo dei nuovi movimenti populisti derivi proprio dalla scarsa propension­e di queste aggregazio­ni politiche verso l’economia del cambiament­o. Che, al contrario, genera una pressione sfavorevol­e, una sorta di invidia sociale verso il mondo dell’intangibil­ità e della sua aura di superiorit­à di classe. E questa sì, a giudicare da ciò che accade un po’ in tutto il mondo, è davvero tangibile. I due autori si fermano all’analisi, salvo raccomanda­re alle politiche pubbliche (e ai decisori politici) di investire anche risorse in questo tipo di asset. Per il semplice fatto - è la loro conclusion­e - che questo tipo di politiche «hanno maggiori possibilit­à di assicurare la prosperità economica delle strategie che vi si oppongono».

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