Artisti in mezzo alla «Strada»
La grande mostra al MAXXI, realizzata dal curatore Hou Hanru in due anni di ricerche, fa il punto sull’attuale rapporto tra arte e spazio urbano: presenti tutti i maggiori esponenti odierni di questa tendenza
La vasta mostra che Hou Hanru ha messo in piedi in due anni di ricerca, insieme a tutto il dipartimento curatoriale del Maxxi, nell’intero primo piano del Museo, è un’indagine sulla relazione tra arte e spazio urbano, inteso come luogo in cui si attivano nuove modalità di creazione artistica.
Le telecamere dorate di Halil Altindere ci accolgono all’inizio della grande navata di video e installazioni. Avvertiamo molta confusione ed è come se questo dispositivo di sorveglianza, trasformato in oggetto museale con un semplice meccanismo (la doratura), desse il diktat a tutta la mostra: l’arte nasce dalla strada, osserviamola, sorvegliamola! Del resto possiamo dire che, almeno da Caravaggio in poi, l’arte ha sempre incluso situazioni di strada. Ma è dai primi del Novecento con il Futurismo, e ancora di più dagli anni Sessanta in avanti con Fluxus e il Situazionismo, con Gutai in oriente, Tropicalia in Brasile fino agli ultimi movimenti di Piazza Taksim, che la strada è diventata per gli artisti una importante fonte visiva e intellettuale, sociale e politica allo stesso tempo. La strada è l’arena nella quale si formano i dibattiti più stringenti del nostro tempo. Ma quali sono le forme di arte urbana oggi? E nascono come aiuto/denuncia di una vita cittadina sempre più complessa, o come astrazione di essa?
L’indagine è lungi dal voler dare una risposta, ma tenta di fare per lo meno una carrellata di quelli che sono i maggiori esponenti odierni di questa tendenza. Si cerca un contatto anche con un pubblico ignaro, così come documenta il video di Koki Tanaka (2011) in cui l’artista cerca di commerciare fronde di palme al mercato delle pulci di Los Angeles, vendendo lo spirito e l’idea dell’arte più che un vero oggetto
artistico. Tutta la navata è ritmata da
un piede che schiaccia a ripetizione una lattina di Coca-Cola (video dell’algerino Adel Abdessemed), così come la nostra vita nei luoghi ad alta densità è piena di rumori ripetuti e angoscianti, figli di un consumismo industriale che ci travolge. Accanto è proiettata la famosa Sleepers di Francys Alys, già alla Stazione Ostiense - sempre ad opera del MAXXI - due anni fa, una serie di diapositive in sequenza mostrano i senzatetto nell’atto di dormire, un’azione privata che si trasforma in una denuncia pubblica delle disparità che la vita urbana porta con sé. Jimmie Durham con La strada di Roma (2011) raccoglie diversi materiali presentati a terra in forma di accumulazione di rifiuti: la portiera di un automobile, pezzi di computer, un orinatoio. Un anti-monumento ma anche un manifesto contro la narrazione e le architetture dominanti, per esempio quelle di consumo. Alcuni si servono della strada come mezzo espressivo, altri, invece, vengono dalla strada, come David Hammons che si è sempre proclamato un disubbidiente nei confronti del sistema dell’arte. Per lui la strada non è solo il materiale di lavoro, ma anche il suo confine pratico ed estetico. In Path Free, video di una performance del 1995, l’artista calcia un secchio lungo il marciapiede producendo un suono straniante nello spazio. Rosa Barba, che invade mezza navata con i suoi tubi metallici, sembra voler mettere in relazione vita sub e sovra urbana, anche distruggendo il concetto di visione unica e unitaria di una città. Ancora Robin Rhode, con il suo poetico He got Game, porta in scena un immaginario legato alla subcultura americana per eccellenza: il basket, presentandolo come uno stop
motion tra il giocatore (lui) e gli espedienti per giocare anche in assenza di nulla (il disegno del campo con il gesso sull’asfalto), tra vita on show e vita vera, vita off, fuori dal glamour.
Tutto ha un aspetto poliedrico, percepiamo organicità ma è difficile ricomporre il senso delle cose ogni volta, e riflettiamo anche sulla permanenza di un modo di fare mostre che Hanru porta avanti al MAXXI, rispetto a quello pulito e patinato che si va affermando globalmente negli ultimi anni. I poster di Alfredo Jaar citano una frase di Gramsci: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Proprio dal chiaroscuro nasce l’opera dissacratoria di Flavio Favelli, una delle più installative -insieme ai tubi di Rosa Barbache vediamo nel Museo, a fare da
fil rouge tra documentario e opera. Flavio Favelli inframezza una serie di insegne pubblicitarie da lui raccolte (che testimoniano un modo di fare marketing che va scomparendo), con una scritta a matita blu sul muro del museo, un testo da lui visto alla stazione di Messina e ricopiato fedelmente che ripete per 11 volte “cerco” con una proposta sessuale, come un rito di ricerca di attenzione straziante. Shen Yuan, una dei massimi esponenti dell’arte concettuale cinese, presenta un’installazione formata da centinaia di piccole scarpe che corrono sui muri formando una scritta che esprime il dolore dell’esilio. Come l’obbligo estetico imponeva una volta di fasciarsi i piedi, oggi il dolore dell’esilio è imposto dalla situazione geopolitica che costringe a lasciare il proprio paese d’origine. Un’altra artista orientale parla di una condizione straniante del vivere collettivo con la sua celebre A Needle Woman. È Kim Soo Ja che, mettendosi spalle alla telecamera in mezzo a flussi di centinaia di persone di diverse città, ci pone ancora una volta interrogativi sul senso del nostro appartenere a queste metropoli giganti, simbolo di libertà ma anche di confine e di frustrazione.
L’ultima parte della mostra presenta una carrellata di opere dai risvolti più politici, dove la protesta si sente nell’aria, fra pareti rosse e nere e immagini di manifestanti con le mani alzate come quelli di Glenn Ligon
(Hands), il video di condanna della classe politica spagnola di Santiago Sierra (Los Encargados, 2012), i demonstration drawings di Rirkrit Tiravanija in cui commissiona ad artisti anonimi tailandesi una serie di immagini legate e temi caldi di marce e scontri. I collages di Marinella Senatore presentano la lotta per l’emancipazione delle donne. I problemi legati alla speculazione edilizia e al cambiamento del volto delle nostre città sono, infine, perfettamente esemplificati dal bellissimo video del turco Ahmet Ogut, in cui le immagini di un drone restituiscono dall'alto la solitudine di una casa chiodo, simbolo della resistenza di chi non vuole vendere ai grandi speculatori e finisce per rimanere isolato al centro di enormi cantieri e macerie.
Non sappiamo se il futuro delle grandi città sarà roseo e molto di quello che sta accadendo ci fa propendere per il no. Ma, pure in un mercato ricchissimo e scintillante (che peraltro non è il riferimento degli artisti di questa mostra), una certa arte riesce ancora a portare alla luce alcuni dei problemi più stringenti del vivere comune perché, come cita un testo di Thomas Hirschhorn in catalogo: «Solo l’opera d’arte possiede la capacità universale di dar vita a un dialogo a quattr’occhi. Dallo spettatore all’opera e dall’opera allo spettatore».