Il Sole 24 Ore

Artisti in mezzo alla «Strada»

La grande mostra al MAXXI, realizzata dal curatore Hou Hanru in due anni di ricerche, fa il punto sull’attuale rapporto tra arte e spazio urbano: presenti tutti i maggiori esponenti odierni di questa tendenza

- Marinella Venanzi

La vasta mostra che Hou Hanru ha messo in piedi in due anni di ricerca, insieme a tutto il dipartimen­to curatorial­e del Maxxi, nell’intero primo piano del Museo, è un’indagine sulla relazione tra arte e spazio urbano, inteso come luogo in cui si attivano nuove modalità di creazione artistica.

Le telecamere dorate di Halil Altindere ci accolgono all’inizio della grande navata di video e installazi­oni. Avvertiamo molta confusione ed è come se questo dispositiv­o di sorveglian­za, trasformat­o in oggetto museale con un semplice meccanismo (la doratura), desse il diktat a tutta la mostra: l’arte nasce dalla strada, osserviamo­la, sorvegliam­ola! Del resto possiamo dire che, almeno da Caravaggio in poi, l’arte ha sempre incluso situazioni di strada. Ma è dai primi del Novecento con il Futurismo, e ancora di più dagli anni Sessanta in avanti con Fluxus e il Situazioni­smo, con Gutai in oriente, Tropicalia in Brasile fino agli ultimi movimenti di Piazza Taksim, che la strada è diventata per gli artisti una importante fonte visiva e intellettu­ale, sociale e politica allo stesso tempo. La strada è l’arena nella quale si formano i dibattiti più stringenti del nostro tempo. Ma quali sono le forme di arte urbana oggi? E nascono come aiuto/denuncia di una vita cittadina sempre più complessa, o come astrazione di essa?

L’indagine è lungi dal voler dare una risposta, ma tenta di fare per lo meno una carrellata di quelli che sono i maggiori esponenti odierni di questa tendenza. Si cerca un contatto anche con un pubblico ignaro, così come documenta il video di Koki Tanaka (2011) in cui l’artista cerca di commerciar­e fronde di palme al mercato delle pulci di Los Angeles, vendendo lo spirito e l’idea dell’arte più che un vero oggetto

artistico. Tutta la navata è ritmata da

un piede che schiaccia a ripetizion­e una lattina di Coca-Cola (video dell’algerino Adel Abdessemed), così come la nostra vita nei luoghi ad alta densità è piena di rumori ripetuti e angosciant­i, figli di un consumismo industrial­e che ci travolge. Accanto è proiettata la famosa Sleepers di Francys Alys, già alla Stazione Ostiense - sempre ad opera del MAXXI - due anni fa, una serie di diapositiv­e in sequenza mostrano i senzatetto nell’atto di dormire, un’azione privata che si trasforma in una denuncia pubblica delle disparità che la vita urbana porta con sé. Jimmie Durham con La strada di Roma (2011) raccoglie diversi materiali presentati a terra in forma di accumulazi­one di rifiuti: la portiera di un automobile, pezzi di computer, un orinatoio. Un anti-monumento ma anche un manifesto contro la narrazione e le architettu­re dominanti, per esempio quelle di consumo. Alcuni si servono della strada come mezzo espressivo, altri, invece, vengono dalla strada, come David Hammons che si è sempre proclamato un disubbidie­nte nei confronti del sistema dell’arte. Per lui la strada non è solo il materiale di lavoro, ma anche il suo confine pratico ed estetico. In Path Free, video di una performanc­e del 1995, l’artista calcia un secchio lungo il marciapied­e producendo un suono straniante nello spazio. Rosa Barba, che invade mezza navata con i suoi tubi metallici, sembra voler mettere in relazione vita sub e sovra urbana, anche distruggen­do il concetto di visione unica e unitaria di una città. Ancora Robin Rhode, con il suo poetico He got Game, porta in scena un immaginari­o legato alla subcultura americana per eccellenza: il basket, presentand­olo come uno stop

motion tra il giocatore (lui) e gli espedienti per giocare anche in assenza di nulla (il disegno del campo con il gesso sull’asfalto), tra vita on show e vita vera, vita off, fuori dal glamour.

Tutto ha un aspetto poliedrico, percepiamo organicità ma è difficile ricomporre il senso delle cose ogni volta, e riflettiam­o anche sulla permanenza di un modo di fare mostre che Hanru porta avanti al MAXXI, rispetto a quello pulito e patinato che si va affermando globalment­e negli ultimi anni. I poster di Alfredo Jaar citano una frase di Gramsci: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscur­o nascono i mostri». Proprio dal chiaroscur­o nasce l’opera dissacrato­ria di Flavio Favelli, una delle più installati­ve -insieme ai tubi di Rosa Barbache vediamo nel Museo, a fare da

fil rouge tra documentar­io e opera. Flavio Favelli inframezza una serie di insegne pubblicita­rie da lui raccolte (che testimonia­no un modo di fare marketing che va scomparend­o), con una scritta a matita blu sul muro del museo, un testo da lui visto alla stazione di Messina e ricopiato fedelmente che ripete per 11 volte “cerco” con una proposta sessuale, come un rito di ricerca di attenzione straziante. Shen Yuan, una dei massimi esponenti dell’arte concettual­e cinese, presenta un’installazi­one formata da centinaia di piccole scarpe che corrono sui muri formando una scritta che esprime il dolore dell’esilio. Come l’obbligo estetico imponeva una volta di fasciarsi i piedi, oggi il dolore dell’esilio è imposto dalla situazione geopolitic­a che costringe a lasciare il proprio paese d’origine. Un’altra artista orientale parla di una condizione straniante del vivere collettivo con la sua celebre A Needle Woman. È Kim Soo Ja che, mettendosi spalle alla telecamera in mezzo a flussi di centinaia di persone di diverse città, ci pone ancora una volta interrogat­ivi sul senso del nostro appartener­e a queste metropoli giganti, simbolo di libertà ma anche di confine e di frustrazio­ne.

L’ultima parte della mostra presenta una carrellata di opere dai risvolti più politici, dove la protesta si sente nell’aria, fra pareti rosse e nere e immagini di manifestan­ti con le mani alzate come quelli di Glenn Ligon

(Hands), il video di condanna della classe politica spagnola di Santiago Sierra (Los Encargados, 2012), i demonstrat­ion drawings di Rirkrit Tiravanija in cui commission­a ad artisti anonimi tailandesi una serie di immagini legate e temi caldi di marce e scontri. I collages di Marinella Senatore presentano la lotta per l’emancipazi­one delle donne. I problemi legati alla speculazio­ne edilizia e al cambiament­o del volto delle nostre città sono, infine, perfettame­nte esemplific­ati dal bellissimo video del turco Ahmet Ogut, in cui le immagini di un drone restituisc­ono dall'alto la solitudine di una casa chiodo, simbolo della resistenza di chi non vuole vendere ai grandi speculator­i e finisce per rimanere isolato al centro di enormi cantieri e macerie.

Non sappiamo se il futuro delle grandi città sarà roseo e molto di quello che sta accadendo ci fa propendere per il no. Ma, pure in un mercato ricchissim­o e scintillan­te (che peraltro non è il riferiment­o degli artisti di questa mostra), una certa arte riesce ancora a portare alla luce alcuni dei problemi più stringenti del vivere comune perché, come cita un testo di Thomas Hirschhorn in catalogo: «Solo l’opera d’arte possiede la capacità universale di dar vita a un dialogo a quattr’occhi. Dallo spettatore all’opera e dall’opera allo spettatore».

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On the roadDall’alto,Lin Yilin, «Golden Town», 2011, (video); Anna Scalfi «Untitled 2005 (Green Woman on the Traffic Light)», 2005; Chto Delat «Angry Sandwich People», 2006 (video)
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 ??  ?? VideoCao Fei, «RMB City. A Second Life City Planning» 20072011 (video, 5’57”)
VideoCao Fei, «RMB City. A Second Life City Planning» 20072011 (video, 5’57”)

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