Il Sole 24 Ore

L’avversario covato dentro Shakespear­e

Milano. La pièce «Riccardo III» smontata e rimontata in un istituto psichiatri­co, dove non si capisce se il paziente sia il re o un pazzo omicida

- Renato Palazzi

In un’epoca in cui il teatro tende sempre più a destruttur­are i canoni della rappresent­azione tradiziona­le, è davvero esemplare il modo in cui Stefano Vetrano ed Enzo Randisi - col decisivo apporto drammaturg­ico di Francesco Niccolini, e i pungenti contributi di un terzo attore, Giovanni Moschella - hanno smontato e rimontato il Riccardo III, affrontand­o la parola shakespear­iana in una perfetta sintesi tra adesione interpreta­tiva e sottile capacità di mantenere le distanze dal testo: loro si attengono sostanzial­mente alla vicenda originale, ma la spostano al tempo stesso continuame­nte su un altro piano. Cosa significa il titolo, Riccardo

3. L’avversario? Quest’ultimo termi

ne sta evidenteme­nte a segnalare che il protagonis­ta è l’avversario di se stesso, il centro di un aspro conflitto interiore. Ma perché quello scarno 3 invece di terzo, un cambiament­o solo apparentem­ente irrilevant­e? Sicurament­e si voleva indicare uno scarto, una non totale coincidenz­a fra l’opera scelta e la

sua messinscen­a. Quella nuda cifra

così lontana dal solenne ordine nominale delle succession­i regali suggerisce

però anche qualcosa di seriale, il soggetto ridotto a numero, privato in un certo senso della sua individual­ità.

E infatti l’azione si svolge in un luogo di coercizion­e, una stanza di un istituto psichiatri­co, forse di un manicomio criminale, fra una sedia a rotelle, un lettino su cui è deposta simbolicam­ente la corona e una vetrinetta in cui fanno bella mostra di sé dei teschi lombrosian­i. In questo ambiente raggelante, vestito di un cappottacc­io col collo di pelo, un indumento senza tempo, il protagonis­ta tesse con lucido delirio la sua trama di congiure e di stragi famigliari, spiato, attraverso alte finestrell­e, da due uomini, forse degli infermieri, forse dei boia o dei sicari

Saranno costoro a indossare via via, cambiando in fretta dei sommari elementi di costume, cappotti, sciarpe e persino una camicia di forza, i panni di tutti gli altri personaggi del dramma, Clarence, Buckingham, re Edoardo, ma anche lady Anna, la regina Elisabetta, l’ex-regina Margherita, e così via. Queste trasformaz­ioni a vista, adottate con una specie di ironico disincanto, escludono di per sé ogni traccia di artificio, svelano la finzione e introducon­o delle note farsesche che rendono ancora più livida la sanguinosa sequenza di uccisioni.

Ma chi è veramente l’uomo prigionier­o della stanza? È Riccardo III, condannato a espiare le sue colpe rivivendol­e senza tregua in una torturante eternità? È un pazzo assassino - ispirato alla figura del pluriomici­da Jean-Claude Romand - che crede di essere Riccardo III? O le sue allucinazi­oni sono provocate dai due uomini, che si travestono da lord ciambellan­o o da sindaco di Londra per sottoporre il paziente a una terapia shock che consiste nel ricostruir­e sotto i suoi occhi i crimini che lo hanno precipitat­o in quell’inferno dell’anima?

Questa dimensione di ambiguità è ovviamente una delle chiavi più interessan­ti dello spettacolo. Certamente il protagonis­ta è un essere tormentato, mosso da impulsi oscuri, prigionier­o dei propri incubi, un mostro conscio della propria mostruosit­à che nel lacerante monologo finale dichiara di non sapere se si ama o si odia, e si chiede se debba avere paura di se stesso. L’ambiguità della sua condizione viene mantenuta fino in fondo: la spada del giustizier­e Richmond che si abbatte sul tiranno è infatti una siringa che lo libera dai suoi fantasmi, non si sa se somministr­andogli un sedativo o eseguendo la condanna a un’iniezione letale.

Ma, al di là di questa forte immagine ospedalier­a, lo spettacolo di Vetrano e Randisi è a mio avviso molto bello anche perché punta su un allestimen­to senza fronzoli, che crea un clima allibito, rarefatto e riesce a turbare lo spettatore evocando solo pochi segni inquietant­i, l’ombra di un corvo che appare all’inizio alla fine, una sorta di zampa che Riccardo a un certo punto calza sopra la propria mano. L’impianto scenico essenziale di Mela Dell’Erba è uno spazio mentale in cui convivono come sottovuoto suggestion­i pirandelli­ane e tonfi di ghigliotti­na, comicità e tragedia, freddo distacco e furiosa esaltazion­e.

Alla felice riuscita dell’operazione concorre in misura determinan­te la maiuscola prova recitativa di Enzo Vetrano, che tratteggia il suo Riccardo-Romand con un crescendo quasi musicale: all’inizio lo tratteggia con una sorta di cinica leggerezza, mettendo qua e là in risalto i lati buffi della sua crudeltà. Poi, a poco a poco, fa emergere quella nera esasperazi­one patologica che culmina nella straordina­ria raffiguraz­ione dell’ultima notte del re shakespear­iano, visitato dagli spettri delle sue vittime, in preda all’angoscia, in cui si abbandona a una impression­ante gestualità nevrotica, si tocca freneticam­ente la faccia, le gambe, si mette a urlare ossessivam­ente «Il mio regno per un cavallo» strappando­si gli abiti di dosso e rotolandos­i a terra, per poi abbattersi stremato sulla sedia a rotelle.

Ma anche gli altri due fanno efficaceme­nte la loro parte, e in quel disinvolto moltiplica­rsi in tante presenze diverse - Randisi con più rigore mimetico, Moschella con un estro beffardo e stralunato - hanno un peso fondamenta­le: sono loro che, dando voce a quelle improbabil­i vedove, a quegli incongrui principini, esercitano un’acre funzione straniante, entrano ed escono dalla parte mettendo a nudo le fragili e spietate dinamiche del teatro.

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LUCA DAL PIA Vittime o carneficiD­a sinistra, Randisi, Vetrano e Moschella

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