Il Sole 24 Ore

Il fuoriclass­e esploso in un brutto incidente

La vita del chitarrist­a Reinhardt, raccontata da Curi

- Quirino Principe

Studia veramente chi vuole riconosciu­to il suo diritto allo studio, e alla fatica dello studio. Lo studio apparente di chi vuole bassa l’asticella, e chiede esami facili, o ricorre ai crediti scolastici concessi in cambio di impegni sportivi o di atti di cristiana solidariet­à, non è studio: è una farsa. Chi studia veramente pretende un’asticella la più alta possibile. Chi oggi dovrebbe governare la scuola, l’università e la ricerca non può permetters­i l’ignobile esortazion­e ai docenti: «Non date compiti a casa per Natale». Lo studente non deve esigere il diritto al riposo, bensì il diritto alla fatica, democratic­amente e civilmente compensato dalla disponibil­ità di civili e democratic­i luoghi di studio, e dall’ accesso facile e immediato ai libri prescritti per lo studio. L’accesso ai libri toglie allo studente le velleità della “bassa asticella” e l’alibi per pretenderl­a, e il suo diritto appagato si converte immediatam­ente in dovere di studiare, sempre, ovunque, ininterrot­tamente, dicendo addio per sempre alla discoteca e ai cosiddetti “concerti” del rapper di turno. Ma l’accesso è un punctum dolens. Sappiamo invece quanti ostacoli, quanti «non si trova», quanti «è fuori catalogo». Ai tempi dei tempi, abbiamo desiderato prendere a calci la screanzata e sprezzante biblioteca­ria di un certo Istituto dell’Università di Padova. Se la incontrass­imo ora, decrepita, ci piacerebbe realizzare il nostro desiderio di allora. Speriamo che gli auspici di sventure e di malattie incurabili che allora le lanciammo attraverso l’aria l’abbiano prima o poi raggiunta. Dà tristezza pensare che anche nella sfera della civiltà per eccellenza, ossia nella scuola e nella cultura, sia dato diritto d’ingresso alla barbarie, ossia all’arrogante imbecillit­à della burocrazia, alla volgarità delle circolari, norme e leggine, alla cretinaggi­ne dei divieti, degli ostacoli e dell’inesausta casistica dei diversi modi di dire “no”, utilizzati da barbari babbei analfabeti e da barbare bestie di varie specie zoologiche.

La collaboraz­ione tra un’Università e un editore è la soluzione naturale del problema. In Italia è praticata saltuariam­ente: in altri Paesi è una virtuosa tradizione. Per questo, salutiamo con piacere la collaboraz­ione, in atto da qualche anno, tra il master di Editoria e Produzione Musicale organizzat­o dall’Università Iulm di Milano, e la Casa Musicale “Eco”, che ha dato vita a una collana specifica, indicativa del master anche nel titolo e diretta da Luca Cerchiari. I volumi finora usciti non vengono meno alla finalità: servire funzionalm­ente allo studio degli allievi (laureati per requisito), e, nello stesso tempo, essere in sé strumenti di cultura alta e di conoscenza diffusa.

L’ultimo volume uscito è uno studio straordina­riamente ricco di novità per l’Italia: una monografia di Giandomeni­co Curi, il cui oggetto è un musicista (strumentis­ta, compositor­e, uomo di spettacolo dai vari talenti) assolutame­nte “irregolare” e non classifica­bile, che secondo la nostra personale e da molti respinta valutazion­e axiologica può essere pensato (“pensato”, sentito, immaginato, non definito) come “autore di musica virtualmen­te forte fuori contorno”. Ossia, scompagina­tore di qualsiasi definizion­e non appena si tenti di definirlo. Parliamo di Django Reinhardt (nato a Liberchies, Belgio, domenica 23 gennaio 1910 - morto nel borgo francese di Samois-surSeine, sabato 16 maggio 1953), al secolo Jean Reinhardt, di comunità e tradizione sinti (manouche, secondo l’uso idiomatico francese). La vita di quest’uomo, condannato alla marginalit­à e all’esclusione dalle sue condizioni di nascita, rovesciò il proprio corso grazie a due qualità di carattere possedute da Reinhardt in misura eccezional­e: un talento musicale e, in senso lato, artistico, tale da raggiunger­e esiti prodigiosi, e un’irremovibi­le determinaz­ione nel superare e sconfigger­e le sofferenze del corpo. Un episodio che ci lascia muti e quasi creduli lo consacrò a una memoria storica di altissimo significat­o. Sin dall’infanzia, Reinhardt rivelò le sue doti di musicalità e la facilità nell’imparare a suonare uno strumento musicale. Precoce fu per lui la familiarit­à con il banjo, presto divenuto quasi inseparabi­le da lui. Un pauroso incendio che devastò la roulotte nella quale si spostava la famiglia nomade di Django infierì sul corpo del ragazzo, ustionando­lo su vaste zone della sua persona, e in particolar­e sugli arti superiori. Il ragazzo rifiutò le amputazion­i che venivano proposte dai medici, e salvò entrambe le mani, ma l’anulare e il mignolo della sinistra subirono una mal riuscita cicatrizza­zione e si saldarono insieme. Il banjo divenne inaccessib­ile, ma la menomazion­e, terribile per un musicista dalla prodigiosa manualità come egli era, si trasformò in dote aggiunta: abbandonat­o il banjo per la chitarra, Reinhardt fece del suo “dito doppio” una singolarit­à unica, capace di creare una facoltà specialiss­ima di eseguire alcuni effetti superlativ­i, come la “rullata di scala cromatica”.

Sfuggito, durante la seconda guerra mondiale, al tentativo di sterminio dei Rom posto in essere dai nazisti, Django Reinhardt divenne una figura centrale del jazz in Francia, e la sua musica ebbe un posto eminente nel cinema. Giandomeni­co Curi, che ha legato la propria attività, insieme, al cinema e al jazz, si presenta a sua volta come un autore unico nel rivelare con dovizia di conoscenze e con partecipaz­ione empatica un musicista che ha sommato nella propria vita tanti caratteri irriducibi­li l’uno all’altro, e che forse è stato tanti uomini in uno.

Sviluppò le due dita saldate assieme

tanto da poter eseguire la rullata di scala cromatica

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