Rigoletto magnifico di gorghi e tempesta
Diciamocelo tra musicisti: se un direttore come Daniele Gatti sceglie Rigoletto per aprire il cartellone dell’Opera di Roma significa che ha un pensiero nuovo da proporci. Sulla partitura, lui che le sa leggere con intelligenza straordinaria, e le traduce con un gesto sempre più raffinato e ricco, poetico, concreto. Questo suo Verdi ha una identità originale, unica. Dove si tolgono le croste delle cattive abitudini, ma soprattutto si costruisce un’idea di teatro sperimentale, stringato, moderno, profondo.
I classici del repertorio valgono solo se riproposti così. Altrimenti assomigliano a vecchi abiti preziosi, ora strappati e a toppe, irriconoscibili. Ma per riportarli alla prima bellezza bisogna possedere sensibilità e tecnica. Gatti con Rigoletto
ha costruito la sua Prima fondativa di un percorso, per l’opera nella Capitale: le due precedenti, Tristano e Faust erano state importanti, gran
diose, per irrobustire i muscoli di Orchestra e Coro. Qui si è lavorato di fino. Con tale determinazione e risultati da farci sognare che i prossimi sette titoli (in tre anni) restituiranno ciò che nei teatri in Italia non vediamo più: un vero progetto musicale, costruito, mirato. Che faccia bene alle maestranze e a noi. Che riporti l’Italia al centro, non per una sera, per un percorso.
Non si faccia intimorire, Gatti: uno che sa dirigere l’accompagnamento sotto “Cortigiani, vil razza dannata”, che gli archi sembravano gorghi e tempesta (ma con tutte, esattamente tutte le note suonate, come fossero Schumann al pianoforte) vuol dire che è già andato oltre. Che la musica in lui è più forte.
Rigoletto qui viene tagliato in due parti, col primo atto e poi secondoterzo insieme, in modo da sbalzare in entrambe l’orlo della frase nera della “maledizione”, gridata dal protagonista. In linea generale avevamo dei dubbi (perché gli intervalli se sono scritti vanno rispettati, e qui tra gli ultimi due atti passa pure un mese) ma in questo caso musicalmente in disegno è tanto pensato che funziona.
Ciascuno dei tre protagonisti è solo. E nell’opera tutta a duetti l’audacia del gran conoscitore del cuore umano, Verdi, sta proprio in questo: creare dialoghi che non si incontrano. Che esasperano le differenze. Così monta la tensione, sottile e ambigua, tra le variate coppie di Rigoletto-Gilda-Duca, che culminerà nel Quartetto, ma poi proseguirà
ancora fino alla fine, alle ultime battute padre-figlia. Opera di sempre lontani. Dove il duo diventa la forma che separa.
Sullo sfondo di un Coro, fantasti
co, a fior di labbra, di Roberto Gabbiani, si stagliano i ritratti a olio di Roberto Frontali, Lisette Oropesa, Ismael Jordi. Magnifici. L’assunto della regia di Daniele Abbado, straniata, brechtiana, ha un legame emotivo con la direzione musicale, ma rinuncia al racconto. Ad esempio ai pantaloni di Gilda, che deve morire in abito da viaggio. Da cavaliere.