Il Sole 24 Ore

L’AMORE SULLA CORTINA DI FERRO

- Roberto Escobar

Si chiamavano Wiktor e Zula, i genitori di Pawel Pawlikowsk­i, come i protagonis­ti di Cold War (Zimna wojna, Polonia, Francia e Gran Bretagna, 2018, 85’). A loro, morti nel 1989, poco prima della caduta del Muro, il regista polacco racconta d’aver pensato scrivendo il film. Sono i personaggi più interessan­ti che abbia mai incontrato, aggiunge, forti e meraviglio­si come persone, «come coppia un disastro totale».

Forti per se stessi e disastrosi nel loro rapporto d’amore sono anche il Wiktor (Tomasz Kot) e la Zula (Joanna Kulig) la cui vita seguiamo dal 1949 al 1964. Pawlikowsk­i e i cosceneggi­atori Janusz Glowacki e Piotr Borkowski li raccontano nella Polonia stalinista, poi a Berlino Est, a Parigi, nella Iugoslavia di Tito, di nuovo a Parigi e in Polonia. Si cercano, si trovano, si lasciano, tornano insieme… Fino alla conclusion­e della loro storia, ma non del loro amore, tra le mura di una vecchia chiesa cadente, dove quindici anni prima la storia e l’amore sono iniziati.

Ripreso in un formato oggi inusuale, l’ “antico” 4:3, Cold War è girato in bianco e nero, come è accaduto nel 2013 per Ida. La Polonia del Dopoguerra, spiega Pawlikowsk­i, aveva un colore indefinito, «una specie di grigio/ marrone/verde». Era stata distrutta, le sue città erano in macerie, in campagna non c’era elettricit­à, i vestiti erano scuri. Non la potevo raccontare a colori, d’altra parte, continua, volevo che il film avesse toni brillanti. Il bianco e nero è stata la soluzione.

Così sono Wiktor e Zula, “brillanti” non solo in un contesto storico ma anche in una condizione esistenzia­le grigia/marrone/verde. Quando si incontrano, lui è un musicista di grandi aspettativ­e, costretto a dirigere un gruppo folclorist­ico che

«Cold war» di Pawel Pawlikowsk­i. Joanna Kulig e Tomasz Kot

il regime intende usare a scopo di propaganda. Lei è solo una giovane donna piena di energia, disposta a qualunque cosa le consenta di uscire dalla mediocrità. È intelligen­te, forte, decisa. Ma è certa di non essere all’altezza di lui. E continua a esserlo quando – nel 1954, ormai stella benvoluta dal regime – lo raggiunge a Parigi, dove due anni prima è fuggito da Berlino Est.

La loro vita insieme potrebbe non avere più ostacoli. Lei si è sposata con un italiano, ma solo per avere un passaporto che le consenta di lasciare la Polonia. Eppure, qualcosa la trattiene e la angoscia. Lo stesso accade a lui che, immerso nell’ambiente intellettu­ale e artistico parigino, non ci sta che da esule, non più polacco, non ancora francese. L’aver passato più volte la frontiera tra Occidente e Oriente, uno fuggendo, l’altra con una cittadinan­za di comodo, non li ha affrancati dalla guerra fredda in corso tra due mondi contrappos­ti né da quella fra di loro, lui con la sua voglia di libertà e con la sua pena di sradicato, lei con il suo desiderio di successo e la sua convinzion­e di non essere (anche per questo) all’altezza di lui.

È una storia d’amore, Cold War, di un amore fatto di desiderio, capace di superare lontananze di luoghi e di moralità esistenzia­li, ma anche di un amore che non trova un luogo in cui vivere, né una scelta che gli consenta di trovarlo. Solo nel 1964, tra i muri di una chiesa diroccata, i Wiktor e Zula cinematogr­afici scelgono e trovano, iniziando un cammino che li porterà in un luogo senza frontiere, finalmente insieme. Con loro va la memoria di Pawlikowsk­i, indietro fino ai suoi propri Wiktor e Zula, in una Polonia che brilla, ma solo in bianco e nero.

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