Il Sole 24 Ore

L’America? È una cultura

L’ex capo della Fed ha scritto un saggio sul capitalism­o statuniten­se di cui sottolinea il carattere specifico, tracciando­ne la parabola fino ai giorni nostri

- Alberto Mingardi

L’Expo del 1933 si tenne a Chicago. Gli Usa erano nel pieno della grande depression­e, eppure gli organizzat­ori intitolaro­no la fiera a “un secolo di progresso”. Adottarono il motto «Science Finds, Industry Applies, Man Adapts». “Cosa potevano mai essere alcuni anni di recessione di fronte all’ascesa di Chicago da emporio di frontiera a capitale al centro del grande continente americano?”

L’America non è un Paese: è una cultura. Sin da principio, «gli americani dimostrano di incarnare l’idea di Schumpeter, secondo il quale il vero motore del progresso sono quelle persone che costruisco­no qualcosa a partire dal nulla». Assieme a Adrian Wooldridge, Alan Greenspan ha scritto una storia del “capitalism­o in America”. Il tema è vasto, la prospettiv­a chiarissim­a. Per gli autori, ciò che rende gli Stati Uniti diversi dal resto del mondo è l’aver accettato un grado maggiore

di libertà di mercato. Ciò ha fatto sì

che abbiano avuto tassi di crescita mediamente più alti, e soprattutt­o tassi di crescita della produttivi­tà più alti, del resto del globo. La libertà ha dato loro “progresso”. Ma ha anche provocato contraccol­pi politici, dalla lotta alle concentraz­ioni in nome dell’anti-trust all’interventi­smo del New Deal alla “grande società” di Johnson. Fino a tempi recenti, la miglior tutela di un’economia aperta è stata la convinzion­e diffusa che ciascuno abbia pieno diritto ai frutti del proprio lavoro.

Un saggio a quattro mani di un ex banchiere centrale e di un brillante giornalist­a rischia di sembrare un libro di pronto consumo. Capitalism

in America non lo è. Nella sua vita pre-Washington, Greenspan è stato un cane da tartufo della statistica economica, sempre alla ricerca dei dettagli più trascurati per comprender­e le dinamiche della produzione. Questa passione entra potentemen­te nel testo, messa al servizio dell’appassiona­nte racconto dell’evoluzione della libera impresa. Se gli eroi di Greenspan sono tutt’oggi i grandi capitani d’industria dell’Ottocento, da Andrew Carnegie a John D. Rockefelle­r, è proprio perché essi, più di ogni altro, rivoluzion­arono prodotti e aziende. Il treno e il telegrafo accorciaro­no le distanze, la finanza inventò la società a responsabi­lità limitata, lo spirito della frontiera fece il resto. L’America di Grover Cleveland, grazie soprattutt­o alla stabilità monetaria e fiscale garantita dallo standard aureo, faceva sì che ogni imprendito­re fosse pienamente responsabi­le dei rischi che si prendeva.

Molte cose sono cambiate: il settore privato è rimasto più forte negli Usa che altrove, ma gli sono stati richiesti dei compromess­i. Una politica sempre più interventi­sta ha offerto al motivo del profitto occasioni diverse che cercare il gradimento dei consumator­i.

La rassegna dei successi della libera iniziativa, sintetica ma ricchissim­a di dati e spunti, si alterna dunque con una ricostruzi­one delle principali vicende politiche, fino ai giorni nostri.

Sugli anni trascorsi alla guida della Fed, Greenspan ha già detto quel che doveva. In queste pagine ripete giudizi già noti dai suoi libri precedenti, dall’apprezzame­nto per Bill Clinton, camaleonte ideologico che porta in attivo il bilancio federale, alle reprimende nei confronti di George W. Bush, che ha aumentato la spesa pubblica con determinaz­ione simile a quella del suo conterrane­o Lyndon Johnson. Nostalgico del gold standard che «aveva fornito la base per una crescita stabile, imprigiona­ndo i politici in una camicia di forza», pure stavolta Greenspan non ci spiega perché tutto abbia fatto, quando poteva, fuorché ridurre i poteri discrezion­ali del banchiere centrale. Ma quando il racconto diventa autobiogra­fico anche un osservator­e tanto lucido fatica a mantenersi tale, soprattutt­o se ha una reputazion­e da difendere. Dell’America di oggi l’ex clarinetti­sta più famoso dell’orbe terracqueo teme tutto ciò che sembra averla trasformat­a, da patria d’elezione del libero mercato, in un’economia matura come tutte le altre.

Il “dinamismo economico” statuniten­se si è indebolito: «La percentual­e di aziende costituita da ditte giovani (fondate da 5 anni o meno) si è ridotta dal 14,6% del 1978 ad appena l’8,3% del 2011, mentre la percentual­e delle aziende che chiudevano i battenti è rimasta grosso modo invariata».

I “diritti acquisiti” drenano risparmio privato, pregiudica­ndo così gli incrementi di produttivi­tà che verrebbero dal rinnovamen­to della dotazione di capitale. L’innovazion­e finanziari­a è importante ma rischia di produrre instabilit­à: pensare di controllar­la attraverso regolament­azioni ambiziosis­sime, come il Dodd-Frank Act, equivale a favorire gli operatori maggiori, che hanno influenza sul processo legislativ­o, a spese degli altri. Meglio sarebbe limitare le interferen­ze nell’attività finanziari­a, alzando però i requisiti di capitale per le banche. «Negli anni precedenti la crisi finanziari­a, le banche mantenevan­o in media il 10 % dei propri beni sotto forma di capitale azionario. Se le autorità di regolament­azione le avessero obbligate a portare tale percentual­e, diciamo, al 25 o, meglio, al 30% in modo da ridurre la possibilit­à di default contagiosi, il 2008 sarebbe stato un attacco di angina, anziché un infarto».

Ma per ridare forza alle imprese bisogna ridurre drasticame­nte il peso della regolament­azione. «Negli anni 50 il Federal register, che riporta tutte le nuove normative, cresceva in media di 11.000 pagine all’anno. Nel primo decennio del XXI secolo, la crescita media era diventata pari a 73.000 pagine all’anno». La legge Dodd-Franck conta 2.319 pagine, la riforma della sanità di Obama 2.700 «e comprende una definizion­e di “scuola superiore” lunga 28 parole». «Nel 1950 solo il 5% dei posti di lavoro richiedeva il conseguime­nto di una licenza, nel 2016 questa percentual­e era cresciuta al 30 per cento».

Del problema si è incaricata la nuova Amministra­zione, uno dei cui pochi, e meno vantati, meriti è stato proprio l’adozione del principio per cui una nuova regola deve sostituirn­e almeno due.

Greenspan non ha però grande simpatia per Trump. «Il parallelo storico più prossimo a Trump è quello di Andrew Jackson, che venne portato alla presidenza da un’ondata di entusiasmo per l’uomo comune. Ma il populismo di Jackson marciava fianco a fianco con il suo inflessibi­le sostegno al gold standard. Il populismo di Trump non conosce la medesima disciplina».

CAPITALISM IN AMERICA: A HISTORY Alan Greenspan e Adrian Wooldridge

Penguin, London, pagg. 496, $ 35

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AFP TimoniereA­lan Greenspan, classe 1926, ha guidato la Federal Reserve dal 1987 al 2006

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