Primi missionari d’America
Tra coloro che a partire dal ’400 si spinsero al di là dell’Atlantico ci sono i frati, impegnati a convertire quei popoli e dunque a conoscerne lingue e culture
Apartire dalla fine del Quattrocento, nell’arco di pochi decenni gli europei varcarono gli oceani e giunsero dappertutto, dando vita a un dominio sul mondo destinato a durare per quasi cinque secoli. A sfidarlo e ritagliarsene una fetta fu solo il Giappone imperialista del Novecento, rapidamente convertitosi alla cultura occidentale dopo la rivoluzione Meji del 1866-69. Un’espansione impressionante, che ebbe forme diverse, alimentata da nobili impulsi missionari (proprio mentre l’antica christianitas europea si veniva spaccando) ma ancor più da insaziabili brame di arricchimento che alle grandi avventure commerciali affiancarono ben presto sfruttamento, schiavismo, brutalità d’ogni genere. E al seguito dell’uomo bianco il grano, le mucche, i cavalli, le pecore, le capre, acclimatatesi ovunque nei climi temperati, ma anche le armi da fuoco e quei germi patogeni, soprattutto il vaiolo, che nell’indifeso Nuovo Mondo americano (e più tardi in Australia) in pochi anni fecero strage, fino a spopolarlo quasi del tutto.
Ma nelle Americhe come in India o in Cina gli europei trovarono non solo oro e argento, seta e avorio, spezie e porcellane, the e caffè nonché schiavi in Africa, ma anche civiltà e culture che ponevano domande inquietanti. In Messico e in Perù si imbatterono in antichi popoli che non ebbero troppe difficoltà a debellare, ma anche nei loro templi grandiosi, nei loro misteriosi geroglifici, nelle loro complesse organizzazioni sociali che ponevano domande inquietanti. Chi erano? Da dove venivano? Perché la Bibbia ne taceva? Come inserirli in una storia sacra tutta già narrata nelle Sacre Scritture? Come inoltrarsi in un universo antropologico, culturale, simbolico così diverso e talora lontanissimo da quello europeo? Come leggere e interpretare scritture non alfabetiche basate su immagini, per esempio? Oppure come decifrare codici numerici fatti di cordicelle variamente annodate (i celebri quipu degli Incas)? Come orientarsi in un calendario ciclico in cui i singoli anni avevano anche un valore qualitativo, anno-casa, anno-coniglio ecc.? Quale era la religione di quei popoli, quali i loro dei, i loro culti, i loro miti fondativi, le loro attese del futuro? E – fondamento e sintesi di tutto ciò – quale era la loro storia? Non solo come si era venuta strutturando la loro civiltà, ma come essi pensavano se stessi nello spazio e nel tempo e quale significato davano al loro passato
Proprio in conseguenza del dominio europeo sul mondo nell’Ottocento pressoché ovunque si sarebbe infine imposta una concezione occidentale della storia, costruita su categorie temporali e spaziali, una successione cronologica di eventi, una periodizzazione, una gerarchia di valori, una concezione giuridica delle istituzioni ecc. Anche in Cina e in India da allora si sarebbe studiata e insegnata la storia in un modo che relegava tutto quanto non rientrava in quegli schemi concettuali in una sorta di preistoria cui il dominio occidentale aveva posto fine, aprendo una nuova e diversa stagione. La storia del mondo, insomma, sarebbe diventata solo la storia della modernizzazione secondo il modello del capitalismo europeo.
Se questo fu l’approdo, il libro di Serge Gruzinski ne studia l’inizio, il modo con cui alcuni dei primi europei guardarono ai nuovi popoli, cercarono di capirne il passato e soprattutto di inserirlo in una storia che ne consegnava irrimediabilmente i destini ai dominatori spagnoli, legittimandone la conquista e recidendo le radici che avrebbero potuto nutrire un’identità alternativa. Sono sempre i vincitori, del resto, a scrivere la storia, anche per insegnarla ai vinti. Il che induce a qualche riflessione nel momento in cui, com’è sotto gli occhi di tutti, la ricca e stanca Europa viene via via sospinta verso la periferia, lasciando ad altri Paesi e altri continenti lo spazio occupato al centro del mondo per mezzo millennio.
Quelli studiati da Gruzinski sono dunque i primi autentici “scopritori” dell’America: non i grandi navigatori che per primi la videro e cominciarono a esplorarla né i rozzi e violenti
conquistadores che la invasero e la sottomisero, ma i frati impegnati anima e corpo a convertirla e per questo anche a conoscerla, a impararne le lingue, a studiarne le culture. Protagonista del libro è il francescano Toribio de Benavente, soprannominato dagli indigeni messicani Motolinia (il povero, l’afflitto in lingua nahuatl) come egli stesso volle chiamarsi, uno dei primi 12 missionari inviati come novelli apostoli al di là dell’Atlantico, autore di una
Historia de los indios de la nueva
España impregnata di una genuina tanto quanto paradossale curiosità per tutto ciò che la stessa predicazione del cristianesimo veniva distruggendo e anzi insegnava o imponeva ai nativi di detestare. A lui si affianca il domenicano Bartolomé de Las Casas, coraggioso difensore dei nativi contro il brutale sfruttamento degli encomenderos, autore della Brevísima relación de la destrucción de las Indias, pubblicata a Siviglia nel 1552 per esortare il re di Spagna a mettere fine a quegli intollerabili abusi.
Diversa era tuttavia la prospettiva con cui essi guardavano a quelle genti sconosciute e falcidiate dai loro compatrioti, dalle loro armi, dalle loro violenze e dai loro batteri. Gli interessi etnografici, il recupero conoscitivo di un mondo in via di estinzione del primo erano lontani dalla denuncia religiosa e morale con cui il secondo descriveva gli arbitri e le crudeltà dei coloni bianchi contro gli indigeni, che presentava in termini tanto positivi da correre il rischio di omologarli agli europei, di cancellarne la differenza, di non riconoscerne l’alterità. Ma il suo obiettivo era anzitutto quello di contrapporsi a Juan Gines de Sepúlveda che negli indios e nei loro culti idolatrici, demoniaci e sanguinari aveva visto solo gli esiti di una «generazione bestiale», animali bruti più che uomini, che era quindi legittimo ridurre in schiavitù. Las Casas, che non si riferiva solo al Messico ma a tutta l’America, era anche il primo a ragionare in termini di storia globale, a scorgere nelle terre al di là dell’Atlantico non solo un’appendice degli immensi dominii di Carlo V, non solo una Nueva España, ma un pezzo del mondo – l’altra metà
del mondo – che veniva adesso a integrarsi nella biblica tripartizione di Europa, Africa e Asia popolate dai discendenti di Noè. Se Motolinia storicizzava il Nuovo Mondo, insomma, Las Casas globalizzava la storia europea.
Sia pure nascosto, distorto o camuffato, qualcosa della storia della propria terra, l’Anahuac, del succedersi dei popoli che vi si erano insediati, dei loro dei, dei loro re, delle loro dinastie, delle loro città rimase tuttavia ai discendenti dei sudditi di Moctezuma, capace di riaffiorare nelle immagini pittografiche di straordinari manoscritti nei questionari dei governatori spagnoli, nelle storie scritte da meticci di nobili origini come Juan Bautista Pomar, nei ricordi registrati da Motolinia, e, una generazione più tardi, da un altro grande francescano, Bernardino de Sahagún, infaticabile raccoglitore di notizie su pratiche sociali, culti, miti, leggende, saperi e memorie storiche degli indios messicani, che compendiò in una monumentale Historia general de las cosas de Nueva España
(originariamente scritta in nahuatl) e destinata tuttavia a restare inedita.
Dalla seconda metà del Cinquecento, infatti, a testimonianza delle sua importanza ideale e politica, la storia sarà soltanto quella raccontata dagli storici ufficiali della monarchia ispanica, che con l’annessione del Portogallo e dei suoi domini asiatici nel 1580 sarebbe diventata un immenso impero mondiale. Ogni altra storia sarà censurata e repressa, a cominciare dalla Brevísima relación di Las Casas, e per semplificare le cose nel 1572 Filippo II darà ordine di sequestrare ogni documento relativo ai popoli amerindi per sottrarre ad essi ogni memoria di un passato che potesse nutrirne qualche rivendicazione di libertà. Da questo punto di vista è significativo che proprio uno storico mezzo sangue si permettesse di ricordare che anche la Spagna era stata vinta e dominata dalla potenza di Roma, era stata convertita al cristianesimo, era stata terra di infedeli musulmani. Ma furono solo esili resistenze. La macchina del tempo venuta con i conquistadores fu un «rullo compressore», decisivo nel trasformare una conquista militare in una conquista culturale e al tempo stesso contribuire alla costruzione dell’ideologia imperiale ispano-portoghese. Nel ricostruire con grande finezza quella che potrebbe definirsi la storia della sopraffazione di una storia sulle altre, Serge Gruzinski ci offre un libro denso e affascinante, prezioso per capire la nascita dell’eurocentrismo e della mentalità coloniale.
LA MACCHINA DEL TEMPO. QUANDO L’EUROPA HA INIZIATO A SCRIVERE LA STORIA
DEL MONDO
Serge Gruzinski Raffaello Cortina, Venezia, pagg. XX-319, € 28