Il Novecento italiano di Margherita Sarfatti
Due mostre a lei dedicate a Milano e Rovereto
Se l’arte italiana del fascismo, almeno nei suoi maestri, poté sfuggire alla bolsa retorica che accomuna i linguaggi visivi degli altri totalitarismi europei, il merito va soprattutto a Margherita Sarfatti. Fu lei, infatti, fino a tutti gli anni ’20, a dettare l’indirizzo della politica artistica del regime, riunendo nel 1922 sette artisti di gran valore (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi) nel gruppo di Novecento, poi ampliato in quello non meno eccellente (con Carrà, de Chirico, Morandi, Casorati, Campigli, Guidi, Tozzi...) di Novecento italiano. Inserendosi, da protagonista, nella corrente internazionale del “ritorno all’ordine”, Margherita Sarfatti promosse in Italia un’arte di «moderna classicità», salda nelle forme e rigorosa nella composizione, capace condurre «dal moderno all'eterno»: libera perciò dalla contingenza della propaganda politica. E fu ancora lei che, negli anni ’30, perduto l’ascendente sul Duce, non si diede per vinta, puntò sull’estero e portò la “sua” arte nell’intera Europa e in Sudamerica, finendo per fare di essa, nel sentire comune, l’“arte italiana” per definizione.
Vero è che, nascendo (a Venezia, nel 1880), aveva ricevuto in dote molti privilegi: ultimogenita di una ricca famiglia ebraica, Margherita Grassini (1880-1961) era cresciuta in Palazzo Bembo, sul Canal Grande, fra gli ospiti del salotto in cui i genitori ricevevano il meglio della cultura e della politica del tempo, ed era stata formata da celebri studiosi, che le diedero una cultura solida e uno sguardo internazionale. Di suo, oltre alla curiosità per il nuovo (ancora adolescente aveva abbracciato il socialismo, poi si accostò al femminismo), ci mise un’intelligenza non comune, un’ambizione tenace, un caparbio anticonformismo e una capacità rara - grazie anche alla padronanza di quattro lingue, in un’Italia in cui i più parlavano solo il dialetto - d’intessere rapporti con tanti protagonisti italiani e internazionali della politica, della cultura, dello spettacolo. Quanto al suo anticonformismo, era tale da irritare persino una ribelle come Anna Kuliscioff, che pure nel 1902, al loro arrivo a Milano, aveva introdotto lei e il marito avvocato, Cesare Sarfatti, nei circoli del socialismo milanese. La Kuliscioff mal digeriva l’eleganza ostentata cui Margherita, a dispetto degli ideali politici, non rinunciò mai, né tollerava la sua libertà affettiva, che nel 1912, subito dopo la nomina di Mussolini a direttore dell’«Avanti» (cui lei già collaborava), la portò a intrecciare con lui un legame passionale, oltreché intellettuale. Così, quando lui prese il potere, Margherita divenne la sua ascoltata consigliera culturale, spesso la sua ghostwriter, e l’autrice della sua biografia ufficiale Dux, tradotta in 18 lingue. Lui la gratificò con incarichi importanti e per qualche tempo impresse al suo Novecento i crismi dell’ufficialità, ma quando la loro storia s’interruppe, nei tardi anni ’20 (lei si avvicinava ai 50...), Mussolini si affidò a figure come il critico Ugo Ojetti e il gerarca cremonese Roberto Farinacci (al cui Premio di pittura, di ultraortodossa fede fascista, Cremona dedica, fino al 24 febbraio 2019, un’interessantissima mostra) e l’arte ufficiale cambiò rotta, pur conservando in sé i semi dell’eccellenza gettati da lei.
L’avventura culturale di Margherita Sarfatti si era avviata però già a Venezia quando aveva preso a recensire le Biennali su testate locali, ed era poi continuata a Milano, sempre nel giornalismo culturale. Da critica militante, aveva presto puntato sui “futuri futuristi” Boccioni, Carrà e Sironi, di cui condivideva il linguaggio sperimentale. Così, quando nel 1922 fondò il gruppo dei «Sette pittori di Novecento», dettò loro le linee di un’arte che si ponesse sì nel solco della più alta tradizione italiana, senza però rinnegare la contemporaneità.
L’appassionata vicenda di Margherita Sarfatti è rievocata a Milano e a Rovereto in due mostre diverse ma complementari, prodotte con Electa, attraverso le opere dei suoi artisti (alcune ritrovate solo ora), scandite secondo le diverse occasioni espositive in cui lei le mostrò, in Italia e all’estero. Novanta i lavori riuniti da Anna Maria Montaldo, Danka Giacon e Antonello Negri a Milano, dove si guarda alla sola attività milanese; circa 100 quelli esposti al Mart da Daniela Ferrari con Ilaria Cimoretti e i ricercatori dell'Archivio del ’900 (che conserva il prezioso Fondo Margherita Sarfatti), disposti in un percorso che rievoca, qui, il suo impegno all’estero. Peccato, solo, non poter vedere le opere tutte insieme, sebbene in soccorso giunga il catalogo, comune a entrambe, ricco d’immagini, di saggi eccellenti e di documenti.
Ma gli artisti prediletti di Margherita Sarfatti molti sono oggi al centro di altre mostre importanti: come l’esemplare monografica di Carrà in Palazzo Reale di Milano.
MARGHERITA SARFATTI. SEGNI, COLORI E LUCI A MILANO
Milano, Museo del Novecento fino al 24 febbraio 2019. Catalogo Electa
MARGHERITA SARFATTI. IL NOVECENTO ITALIANO NEL MONDO
Rovereto, Mart fino al 24 febbraio 2019. Catalogo Electa