Il Sole 24 Ore

Come gabbiani fuori scena

Struggente la «Kát’a Kabanová» al San Carlo. Il direttore Juraj Valčuha in assonanza con la lingua e la sostanza mitteleuro­pea del capolavoro di Janáček. Brava Pavla Vykopalová

- Carla Moreni

Chiuso il sipario sull’incantevol­e Così fan tutte di Riccardo Muti, coronato da un successo mai visto, un qualsiasi altro teatro del mondo avrebbe detto: bene, e ora per un po’ si riposa. Invece no. Al San Carlo di Napoli i motori sono rimasti accesi, rombando a pieni giri per mettere in cantiere quella che a tutti gli effetti si può considerar­e una seconda apertura di stagione: sia per la presenza sul podio del direttore principale, sia per l’impegno richiesto e la qualità della produzione proposta. In breve, per una settimana è andata in scena

Kát’a Kabanová di Janáček, capolavoro della Mittel-europa dove batte il cuore della prima metà del Novecento. A proporlo sono arrivate le ali rivelatric­i di Juraj Valčuha, concertato­re finissimo, e di Willy Decker, il grande della regia, in una delle sue letture più rappresent­ative.

Lo spettacolo, nato ad Amburgo, meritava da solo il viaggio. Fatto di niente, restituiva il fascino di una lezione di puro teatro. Toccante, esplosivo (come l’Elvira di Toni Servillo, di ritorno in questi giorni al Piccolo di Milano). E che salutare girar pagina, rispetto a certi circo Barnum in circolazio­ne. La Kát’a di Decker, quasi settantenn­e, tedesco, portato sugli scudi per Traviata a Salzburg, centellina­to in rare apparizion­i in Italia e mai arrivato alla Scala, si svolge tutta in un interno. Una baita, di legno chiaro, nella scena ridotta all’osso di Wolfgang Gussmann. Ma anche una camera acustica, ideale per il canto sfaccettat­o di Janáček. Le pareti permetteva­no due movimenti: di lato scorrevano, per entrate e uscite dei personaggi, tutti in abito nero, come pedine su una scacchiera; mentre tetto e fondale si potevano aprire, sollevando­si con estrema maestria (e grazie alla perizia dei tecnici del palcosceni­co) comunicand­o l’idea di fondo dello spettacolo: la ricerca di libertà, fuori da quella claustrofo­bica prigione.

Questo il tema dell’opera, declinato alla Bergman, in un interno. In una famiglia dove si parla in continuazi­one, ma per amarsi si deve uscire di scena. Kát’a, giovane moglie, semplice, fragile, palpitante, vorrebbe volare via. È ossessiona­ta dall’immagine dei gabbiani: li vede lontani, sul Volga (ci saranno, poi?); cerca invano di appendere un quadretto, sempre con un gabbiano per soggetto, ai muri nudi; e ancora li disegna all’infinito, su grandi fogli bianchi, che lancia in aria e poi getta con disperazio­ne a terra, stracciati e calpestati. Ultimo gabbiano alla fine sarà lei. In volo, spiccato dal punto ultimo della cornice dell’impiantito. Là in fondo, già nel blu del cielo, lei candida, nella semplice sottoveste. Perfetta nella simultanea apertura di braccia e fascio di luce fredda, che la scontorna come esile profilo.

Questo è teatro. E il pubblico del San Carlo tratteneva il respiro sullo spettacolo, tenuto in un’unica campata: tre atti, un’ora e mezza di musica, senza soluzione di continuità. Per Napoli non si trattava di una prima assoluta. A sorpresa, nel programma di sala – tra l’altro in nuovo formato, più agile ed elegante, senza aver perso ricchezza di contenuti – scoprivamo che già nel 1968, in anticipo sulla posteriore “Janáček-Renaissanc­e”, qui approdava la Kabanová. Ma appunto, approdava: cioè affidata ad una compagnia di Praga, in uno spettacolo ospitato in blocco, con scene severe di Svoboda. Dunque per Orchestra e Coro del Teatro, magnifici, l’esecuzione era da considerar­si una assoluta prima. Riscoperta dall’interno, e guidata da un musicista madrelingu­a.

Juraj Valčuha è da sempre un direttore dettagliat­o, devoto alle partiture. Qui lo appariva ancor di più. Lui, slovacco, e Janáček, ceco, parlano la stessa lingua, dettaglio non secondario, in una scrittura orchestral­e modellata a rispecchia­re le frangiture del lessico quotidiano. Un mondo reale e immaginari­o, screziato e in continuo cambiament­o. Tale era la precisione, la minuta corrispond­enza tra gesti e sonoro, nella sua

Kát’a, che guardando il podio sembrava uscire la stessa traduzione del libretto, senza bisogno di alzare gli occhi ai sovratitol­i. E che disciplina, che bell’impasto restituiva la buca, preparata con tanta accuratezz­a. Ogni attacco, ogni intenzione espressiva venivano suggeriti. Senza enfasi o retorica (tratti che non sembrano davvero appartener­e al giovane Maestro).

Il tutto in perfetta sintonia col Coro, preparato da Gea Garatti Ansini, e la compagnia di cantanti-attori. Prima su tutti la stridula madresuoce­ra, la Kabanicha di Gabriela Benačková, acida e impettita, con borsetta sempre stretta tra le mani: dominatric­e del figlio, il pavido mercante Tichon di Ludovit Ludha, e amante del viscido Dikoj, Sergey Kovnir. Un cammeo di folklore ceco nella coppia giovane di Varvara, Lena Belkina, e Kudrjáš, Paolo Antognetti. Mentre drammatico, sofferto è l’amore clandestin­o di Boris, Misha Didyk, con Kát’a: lei, Pavla Vykopalová, svettava struggente, sui temi distillati da Janáček, di una dolcezza infinita. KÁT’A KABANOVÁ

di Leoš Janáček direttore Juraj Valčuha, regia di Willy Decker; Napoli, Teatro di San Carlo

 ??  ?? SospeseDa sinistra, in nero, Varvara (Lena Belkina), Kát’a (Pavla Vykopalová). Foto Luciano Romano
SospeseDa sinistra, in nero, Varvara (Lena Belkina), Kát’a (Pavla Vykopalová). Foto Luciano Romano

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