Il fascino di Hitler che fa paura ai tedeschi
Hans-Jürgen Syberberg, classe 1935, è uno degli esponenti del Nuovo cinema tedesco (Neuer Deutscher Film o Junger Deutscher Film), il movimento cresciuto in Germania tra gli anni Sessanta e Ottanta e che vedeva coinvolti, tra gli altri, Werner Herzog, Rainer Fassbinder, Margarethe von Trotta, Edgar Reitz e Wim Wenders. Syberberg ha inaugurato con il suo
Hitler, un film dalla Germania (1977) la soggettiva cinematografica progettata da Luc Tuymans alla fondazione Prada di Milano, dove fino al 25 febbraio viene ospitata la mostra Sanguine sul Barocco dell’artista belga. Syberberg ha uno sguardo rassegnato, ma non privo di dolcezza, forse incuriosito dalla reazione, a distanza di tanti anni dall’uscita della pellicola, del pubblico milanese al suo film di quasi sette ore. In patria la sua analisi del Führer, come animale mediatico capace di suscitare amore e senso di immedesimazione, aveva provocato molte riserve. «Era passato troppo poco tempo. La gente mi vedeva come un pericolo perché scoprivo il punto nevralgico della nostra fascinazione verso Hitler, che non era solo un essere diabolico. Era interessante cercare anche il suo lato buono, che piaceva ai tedeschi, oltre a quello folle che non siamo stati in grado di fermare. Toccare quelle corde fa paura».
La generazione di Syberberg ha vissuto, oltre agli orrori della Storia, la possibilità di costruire il proprio Paese da zero. «È interessante - ride sconcertato -. Non avevo mai sentito
dire prima che il punto zero fosse un
meraviglioso punto di partenza. E ragionandoci sopra lo è. Dopo il ’45 la Germania era distrutta, molto di più degli altri Paesi. I nostri primi film erano veramente poveri, soprattutto dal punto di vista estetico. Dovevamo inventarci qualcosa di nuovo e questo ci ha dato la possibilità di usare registri diversi. Ricordo quando il maestro Visconti, che aveva in dotazione sofisticate macchina da presa, bellissime attrici, un grosso capitale, grandi idee e una famiglia colta alle spalle girò il suo bellissimo film su Ludwig. Mi ero cimentato anche io sullo stesso soggetto e nello stesso periodo, ma con un budget modestissimo». Sulla
vita di Ludovico II di Baviera infatti
Syberberg realizzò nel 1972 Ludwig Requiem per un re vergine, mentre Luchino Visconti intitolò il suo solamente Ludwig (1973). «Entrambe le pellicole furono proiettate a Parigi nello stesso periodo, ma al grande evento di Visconti la sala era vuota, mentre il nostro piccolo film fece il pienone. Se parli di Ludwig non puoi prescindere da Wagner, ma mentre nel film di Visconti il protagonista va all’opera, nel mio film Wagner è dappertutto, in ogni scena e Ludwig diventa una figura wagneriana del cinema. I parigini, che ignoravano Wagner, avvertirono l’energia della sua musica grazie al mio film e questa è stata una scommessa vinta. Forse perché nell’anno zero della Germania siamo riusciti a inventare una tecnica cinematografica strana e importante, di fatto una nuova realtà».