Intrufoliamoci nelle dimore degli scrittori
Su quale poltrona dello studio di Alessandro Manzoni, in via Morone, si sarà seduto Balzac, l’1 marzo 1837, scrutando i presenti con il suo “sguardo da domatore di belve”? Quella grigia o quella con la fodera verde? - sempre ammesso che i secoli non le abbiano cambiate. Come avrà considerato gli austeri arredi di quel nobile milanese, lui che si riteneva un grande arredatore e prediligeva gli effetti rutilanti?
Niente era più diverso della bizzarra pettinatura torreggiante del francese dalla modesta tenuta del collega italiano. Presto gli amici del padrone di casa si erano accorti con orrore che Balzac non aveva letto I promessi sposi, ma era inesauribile su un solo argomento: se stesso.
Manzoni ascoltava perplesso quel fiume in piena dove riflessioni sulla
criminologia si mescolavano a illazioni
sul panteismo. Era proprio quello il ge
nio che aveva dichiarato nella prefazio
ne alla Commedia umana: «Io scrivo alla luce di due verità eterne, la religione e la monarchia»? Niente era più lontano dalla religiosità di Manzoni dell’esaltazione dell’allegra oscenità di Rabelais in cui Balzac si era imbarcato.
Le dimore degli scrittori sono abitate da fantasmi pronti a scaturire come scintille dai pochi oggetti lasciati dietro di sé dall’alluvione del tempo. Ed è questo territorio concreto ed evanescente che Mauro Novelli ha esplorato con una scrittura ironica e devota.
«Vivo in un’isola, in una casa triste, dura, severa che mi sono costruita da me, solitaria sopra uno scoglio a picco sul mare: una casa che è lo spettro, l’immagine segreta della prigione, l’immagine della mia nostalgia», meditava Malaparte che andava in bicicletta sul lungo tetto della Casa come
me, che Bruce Chatwin paragonava a una «nave omerica finita in secco». Il mare si affacciava dal fondo di cristallo del camino e dalle finestre prive di tende spalancate sui faraglioni di Capri.
Le case riserbano delle sorprese. In
una casa sulla riviera ligure che Carlo
Levi condivideva con la famiglia c’era un sontuoso bagno precauzionalmente chiuso a chiave. Dal buco della serratura si poteva ammirare il contrasto un po’ lugubre tra il nero delle piastrelle e il bianco dei pezzi. Niente di più diverso dai miseri piaceri dello sperduto confino di Eboli dove il fascismo l’aveva a lungo esiliato.
E niente di più spietato del lucido
parquet del borghesissimo appartamento di Alberto Moravia sul Lungotevere della Vittoria. Il telefono posato in cima a una cassettiera sembra sempre sul punto di suonare. Si aveva sempre l’impressione che la sordità dello scrit
tore fosse relativa e che gli consentisse
di scegliere tra quello che preferiva sentire o non sentire.
Gli intimi avevano notato come Pirandello restasse estraneo all’arredamento dei luoghi in cui si trovava. Sembrava che la sua lucidità apocalittica gelasse
le atmosfere, trasformando ogni casa, persino quella romana di via Armando Bosio, oggi museo, in una stanza d’albergo. «La chiave dello studio, ricorda Corrado Alvaro, era nella toppa. Bastava girarla, e si entrava. Solo, quasi sempre, lo si ritrovava dopo avere cercato nella stanza grigia e azzurra; veniva avanti grigio, d’argento, senza età».
Era stato anche il nome, Zero Bran
co, a sedurre Giovanni Comisso, che l’aveva comprato in uno dei rari momenti di prosperità al ritorno da un viaggio in Oriente. Benchè fosse a pochi chilometri da Treviso era decisamente un altro mondo. Gli artisti amici si erano affaccendati come uno sciame d’api intorno a quella vecchia casa colonica. Il più noto, Arturo Martini, aveva scolpito un San Bovo per l’entrata della stalla. Altri avevano striato di fasce rosse il bianco calce delle pareti, dipinto una Madonna e fabbricato dei mobili molto semplici e “inavvertibili”. Era stato Comisso in persona a fare il rudimentale impianto elettrico e a dipingere gli infissi. Poi erano stati appesi sei quadri del grande amico De Pisis che «vivevano di vita propria, in un’incessante narrazione».
Durante la Prima guerra mondiale Gabriele d’Annunzio si era preparato un rifugio, la minuscola Casetta Rossa, arredata con meditata raffinatezza, ancora oggi visibile sul Canal Grande. «È piccola, quasi una casa di bambola». Gli specchi sulle pareti rosate riflettevano mobili Impero e Luigi XVI e il sofà su cui si sdraiavano le amanti in deshabillé. Tra loro la più importante era Venturina. D’Annunzio le aveva dato quel soprannome perché i suoi occhi sembravano quella “pasta vitrea che, simile ad un topazio bruno formicolante di faville d’oro, era ai vetrai di Murano la pietra venturina». Insaziabile, la convocava perentoriamente: «Guai se non ti precipiterai senza indugio alla rivetta della Casa Rossa! ho voglia di te come si ha voglia di un frutto sugoso per dissetarsi..».
Mentre D’Annunzio trasfigurava, Guido Gozzano sminuiva. La casa di Aglié Canavese non è la «cascina volgare e senza sogni se io non la popolassi di tutte le mie stramberie». Ma neanche la Prima guerra mondiale aveva alterato quell’angolo di mondo. Guido, rammenta un’amica, era «di media statura, coi capelli di un autentico biondo dorato, il corpo di una magrezza elegante, il viso pallido, alquanto scarno, dai lineamenti pronunciati, non era precisamente bello, ma era la distinzione in persona». Un angelo logorato dalla tisi tra «le buone cose di pessimo gusto». Si dice, ricorda Novelli, che alla sua morte tre farfalle bianche volteggiassero sulla bara del poeta che tanto le aveva collezionate.
LA FINESTRA DI LEOPARDI
Mauro Novelli
Feltrinelli, Milano, pagg. 240, € 18