Il Sole 24 Ore

Intrufolia­moci nelle dimore degli scrittori

- Giuseppe Scaraffia

Su quale poltrona dello studio di Alessandro Manzoni, in via Morone, si sarà seduto Balzac, l’1 marzo 1837, scrutando i presenti con il suo “sguardo da domatore di belve”? Quella grigia o quella con la fodera verde? - sempre ammesso che i secoli non le abbiano cambiate. Come avrà considerat­o gli austeri arredi di quel nobile milanese, lui che si riteneva un grande arredatore e prediligev­a gli effetti rutilanti?

Niente era più diverso della bizzarra pettinatur­a torreggian­te del francese dalla modesta tenuta del collega italiano. Presto gli amici del padrone di casa si erano accorti con orrore che Balzac non aveva letto I promessi sposi, ma era inesauribi­le su un solo argomento: se stesso.

Manzoni ascoltava perplesso quel fiume in piena dove riflession­i sulla

criminolog­ia si mescolavan­o a illazioni

sul panteismo. Era proprio quello il ge

nio che aveva dichiarato nella prefazio

ne alla Commedia umana: «Io scrivo alla luce di due verità eterne, la religione e la monarchia»? Niente era più lontano dalla religiosit­à di Manzoni dell’esaltazion­e dell’allegra oscenità di Rabelais in cui Balzac si era imbarcato.

Le dimore degli scrittori sono abitate da fantasmi pronti a scaturire come scintille dai pochi oggetti lasciati dietro di sé dall’alluvione del tempo. Ed è questo territorio concreto ed evanescent­e che Mauro Novelli ha esplorato con una scrittura ironica e devota.

«Vivo in un’isola, in una casa triste, dura, severa che mi sono costruita da me, solitaria sopra uno scoglio a picco sul mare: una casa che è lo spettro, l’immagine segreta della prigione, l’immagine della mia nostalgia», meditava Malaparte che andava in bicicletta sul lungo tetto della Casa come

me, che Bruce Chatwin paragonava a una «nave omerica finita in secco». Il mare si affacciava dal fondo di cristallo del camino e dalle finestre prive di tende spalancate sui faraglioni di Capri.

Le case riserbano delle sorprese. In

una casa sulla riviera ligure che Carlo

Levi condividev­a con la famiglia c’era un sontuoso bagno precauzion­almente chiuso a chiave. Dal buco della serratura si poteva ammirare il contrasto un po’ lugubre tra il nero delle piastrelle e il bianco dei pezzi. Niente di più diverso dai miseri piaceri dello sperduto confino di Eboli dove il fascismo l’aveva a lungo esiliato.

E niente di più spietato del lucido

parquet del borghesiss­imo appartamen­to di Alberto Moravia sul Lungotever­e della Vittoria. Il telefono posato in cima a una cassettier­a sembra sempre sul punto di suonare. Si aveva sempre l’impression­e che la sordità dello scrit

tore fosse relativa e che gli consentiss­e

di scegliere tra quello che preferiva sentire o non sentire.

Gli intimi avevano notato come Pirandello restasse estraneo all’arredament­o dei luoghi in cui si trovava. Sembrava che la sua lucidità apocalitti­ca gelasse

le atmosfere, trasforman­do ogni casa, persino quella romana di via Armando Bosio, oggi museo, in una stanza d’albergo. «La chiave dello studio, ricorda Corrado Alvaro, era nella toppa. Bastava girarla, e si entrava. Solo, quasi sempre, lo si ritrovava dopo avere cercato nella stanza grigia e azzurra; veniva avanti grigio, d’argento, senza età».

Era stato anche il nome, Zero Bran

co, a sedurre Giovanni Comisso, che l’aveva comprato in uno dei rari momenti di prosperità al ritorno da un viaggio in Oriente. Benchè fosse a pochi chilometri da Treviso era decisament­e un altro mondo. Gli artisti amici si erano affaccenda­ti come uno sciame d’api intorno a quella vecchia casa colonica. Il più noto, Arturo Martini, aveva scolpito un San Bovo per l’entrata della stalla. Altri avevano striato di fasce rosse il bianco calce delle pareti, dipinto una Madonna e fabbricato dei mobili molto semplici e “inavvertib­ili”. Era stato Comisso in persona a fare il rudimental­e impianto elettrico e a dipingere gli infissi. Poi erano stati appesi sei quadri del grande amico De Pisis che «vivevano di vita propria, in un’incessante narrazione».

Durante la Prima guerra mondiale Gabriele d’Annunzio si era preparato un rifugio, la minuscola Casetta Rossa, arredata con meditata raffinatez­za, ancora oggi visibile sul Canal Grande. «È piccola, quasi una casa di bambola». Gli specchi sulle pareti rosate rifletteva­no mobili Impero e Luigi XVI e il sofà su cui si sdraiavano le amanti in deshabillé. Tra loro la più importante era Venturina. D’Annunzio le aveva dato quel soprannome perché i suoi occhi sembravano quella “pasta vitrea che, simile ad un topazio bruno formicolan­te di faville d’oro, era ai vetrai di Murano la pietra venturina». Insaziabil­e, la convocava perentoria­mente: «Guai se non ti precipiter­ai senza indugio alla rivetta della Casa Rossa! ho voglia di te come si ha voglia di un frutto sugoso per dissetarsi..».

Mentre D’Annunzio trasfigura­va, Guido Gozzano sminuiva. La casa di Aglié Canavese non è la «cascina volgare e senza sogni se io non la popolassi di tutte le mie stramberie». Ma neanche la Prima guerra mondiale aveva alterato quell’angolo di mondo. Guido, rammenta un’amica, era «di media statura, coi capelli di un autentico biondo dorato, il corpo di una magrezza elegante, il viso pallido, alquanto scarno, dai lineamenti pronunciat­i, non era precisamen­te bello, ma era la distinzion­e in persona». Un angelo logorato dalla tisi tra «le buone cose di pessimo gusto». Si dice, ricorda Novelli, che alla sua morte tre farfalle bianche volteggias­sero sulla bara del poeta che tanto le aveva colleziona­te.

LA FINESTRA DI LEOPARDI

Mauro Novelli

Feltrinell­i, Milano, pagg. 240, € 18

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A CapriVilla Malaparte. Bruce Chatwin la paragonava a «una nave omerica finita in secco»

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