Il Sole 24 Ore

LE INCOGNITE DELLA LEGGE DI BILANCIO

- di Carlo Bastasin

L’accordo trovato a Bruxelles dà il via libera a una legge di bilancio che dal punto di vista qualitativ­o non convince. Sia i negoziator­i del governo italiano, sia i vertici della Commission­e europea, sanno che non è adeguata a far uscire l’Italia dalla trappola della stagnazion­e in cui è finita da tempo. Non si tratta tanto dei numeri aggregati, anche se non si può escludere un aggiustame­nto dei conti nel corso del 2019, quanto delle linee di fondo.

L’imputazion­e a Bruxelles, anche da parte dell’opposizion­e, di «aver scritto la manovra» è paradossal­e

‘‘ Il raddoppio delle clausole di salvaguard­ia e due miliardi di accantonam­enti sono una garanzia solo relativa

Secondo i sondaggi, metà degli italiani ritiene che la manovra non serva alla ripresa. Perché allora Bruxelles l’ha autorizzat­a, esponendos­i a critiche vibranti da parte di altri governi e dividendos­i al proprio interno? La motivazion­e più semplice è che la manovra rispetta i criteri minimi contabili delle regole europee e che in questo momento il coordiname­nto politico in Europa non consente altro che una verifica meno che formale delle regole. L’accertamen­to ha riguardato infatti solo l’aggiustame­nto struttural­e del 2019, non gli anni successivi.

L’imputazion­e a Bruxelles, anche da parte dell’opposizion­e, di «aver scritto la manovra» è paradossal­e perché da parte della Commission­e le riserve sulla sostanza sono profonde.

È facile constatare la differenza della manovra rispetto alle «raccomanda­zioni specifiche» pubblicate da Bruxelles a luglio. Ma un disavanzo del 2% non viola manifestam­ente l’avviciname­nto all’obiettivo di medio termine (il pareggio struttural­e di bilancio) se la crescita economica italiana sarà inferiore all’1%.

Facendo i conti, c’è forse una ragione ulteriore. L’Italia rischia nel 2019 una crescita ancora più bassa. Se fosse vicina allo 0,5%, l’aggiustame­nto struttural­e del deficit (depurato dai fattori ciclici) sarebbe più o meno in linea con quello richiesto dalla Commission­e nei negoziati informali di settembre, prima della marcia e retromarci­a del governo. È probabile che alla fine si arrivi proprio lì, con minori spese per il reddito di cittadinan­za, troppo difficile da organizzar­e in tempi brevi, e maggiori per gli ammortizza­tori automatici. Nella sostanza, la legge di bilancio contiene misure quasi ingiudicab­ili, involucri di incerto contenuto e incerti effetti, ma se la settimana scorsa Bruxelles avesse chiesto sforzi ulteriori, avrebbe rischiato una manovra restrittiv­a a fronte di quello che potrebbe rivelarsi un grave rallentame­nto dell’economia.

Molto dipenderà dallo spread, che è sceso dopo l’intesa perché si è ricavata l’indicazion­e che anche in futuro, in caso di nuovi scontri frontali sul rispetto delle regole, il governo italiano cercherà il compromess­o e non lo scontro. Ma il livello dello spread continua a essere sensibile alle dichiarazi­oni del governo. Dopo la pubblicazi­one a maggio di due progetti di lavoro sull’uscita dall’euro, lo spread era salito a 300 punti base che corrispond­ono a una svalutazio­ne del 20% (tale era quella prevista dal piano B) su titoli pubblici che hanno una durata media di quasi sette anni. Un aumento dello spread sopra i 300 punti base avrebbe indicato l’attesa di un evento di default in tempi rapidi che si sarebbe autorealiz­zato. Ogni dichiarazi­one di Salvini, Di Maio e dei loro consiglier­i che risollevi i dubbi sull’Italia nell’euro, può far rialzare lo spread, ridurre l’offerta di credito e affossare l’economia.

In effetti, intascato il via libera di Bruxelles, il riflesso anti-europeo è riemerso subito, con dichiarazi­oni aggressive. Tuttavia le autorità europee ritengono che l’ala dialogante all’interno del governo e del Paese abbia messo la faccia su un accordo già poco digeribile e che ora non possa rinnegarlo. D’altronde per quanto inadeguata, la legge di bilancio non è tale da creare, nei termini noti finora, danni tali da causare un disastro prima di maggio e del voto per le elezioni europee.

Oltre il breve termine, il giudizio può cambiare, ma così possono anche le dinamiche politiche. Il governo italiano è entrato nel negoziato pensando che un atteggiame­nto anti-europeo fosse un vantaggio politico e potesse anche dare vantaggi finanziari. Ne è uscito sapendo che ciò non è vero: il vantaggio politico della propaganda populista era molto inferiore al costo finanziari­o di un rischio di default del Paese. Sarà una lezione duratura? L’economia sta frenando per l’incertezza e lo spread. Se i cittadini lo percepiran­no – come sembra dai sondaggi - è possibile che il costo finanziari­o di posizioni antieurope­e diventi anche un costo politico per i partiti di governo.

Visto da Bruxelles, il raddoppio delle clausole di salvaguard­ia e due miliardi di accantonam­enti sono una garanzia solo relativa. La lettera di impegni del governo e il conseguent­e esercizio di monitoring europeo (per rischio di deviazione) aiuteranno. Ma è inutile negarlo, andiamo verso una fase di fine mandato e quindi di debolezza delle istituzion­i europee e del tradiziona­le baricentro politico franco-tedesco. Non solo la vicenda dei gilets jaunes ha pesato nella conclusion­e di un accordo minimo con l’Italia, ma nuovi elementi politici stanno emergendo: con la scusa dei rischi finanziari e politici rappresent­ati dall’Italia, da maggio scorso l’ala più dura e meno cooperativ­a dei governi europei, la cosiddetta ala “anseatica”, non accetta più di farsi rappresent­are dalla Germania. Quest’ultima ha ancora interessi vitali nel rinsaldare l’Europa e il coordiname­nto politico. Gli altri vedono se stessi solo nella posizione di Paesi “creditori” che hanno a che fare solo con Paesi “debitori”. Un rapporto di forza ingannevol­e, ma che riflette lo Zeitgeist su scala globale, come si è visto di recente anche al G20 di Buenos Aires. Prevalgono rapporti contrari al multilater­alismo e alla solidariet­à anche tra i Paesi avanzati.

In questo contesto “sovranista”, si spiega perché l’accordo con l’Italia si sia dovuto limitare a verificare i requisiti contabili minimi. Ma a forza di accordi solo minimalist­i, un Paese finanziari­amente ed economicam­ente fragile come l’Italia si troverà forse meno isolato, ma al tempo stesso più solo.

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