Il Sole 24 Ore

Cronache quotidiane di grazia straordina­ria

Valentino Zeichen. Con «1999» inizia la pubblicazi­one dei diari del poeta

- Paolo Febbraro

Più volte, nel suo Diario 1999, Valentino Zeichen si preoccupa del fatto che la sua ottima reputazion­e di cuoco possa scalzare quella di poeta. Del resto, il cibo è una delle sue ossessioni: quasi tutte le note più severe sono rivolte al modo in cui viene sfamato, da amici e conoscenti borghesi. I dispensato­ri d’inviti, dei quali ha bisogno, Zeichen li prende all’amo del cattivo cibo che ammannisco­no, per distrazion­e e superficia­lità, rovesciand­o quasi la loro dovizia in miseria morale. Il poeta sa che il cibo è la sostanza, la verità delle persone: non solo è il tornaconto dell’indigente, ma anche la radiografi­a che svela il nucleo delle strutture sociali ed economiche, quelle che giacciono al centro delle apparenze. I discorsi di poesia, di filosofia e di storia, invece, sono semmai la moneta spicciola da spendere a comando, il malinconic­o servizio reso alla comunità pagante dalla maschera pubblica di poeta, indossata una volta per sempre nella costruttiv­a società dei ruoli fissi.

Il Diario 1999 – con cui la casa editrice Fazi intraprend­e la pubblicazi­one di tutti i diari lasciati da Zeichen – vede il poeta registrars­i in brevi note quotidiane, inchiodand­o una giornata a un episodio, a una frase scambiata al telefono, a un piatto gustato. In quell’anno Zeichen è alle prese con un libro di poesie su Roma che lo assilla e lo delude – il futuro Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, uscito nel 2000 –, lotta contro un’inaspettat­a aridità poetica, fa parte di una delegazion­e di scrittori italiani invitati in Cina, accetta inviti al mare, si preoccupa delle proprie magre finanze, prende l’influenza e geme sobriament­e sulla propria solitudine di malato, registra gli scacchi e i trionfi della propria squadra del cuore come anche della propria vita amorosa, mettendo a confronto la cattiva salute con i doveri dell’esibizione mondana. Eppure, queste pagine hanno una grazia straordina­ria, e un’eleganza semplice, che legano il lettore, lo avvolgono – pur nella loro estrema misura – in un’idea di verità totale.

Zeichen, infatti, ha avuto molto rispetto per il proprio diario. Sia in versi, sia in prosa, le sue note hanno una lingua accurata, che incastona termini tecnici e appare quasi curiale, priva di confidenze gergali. La sua espression­e è seria, notarile; le sue tranches de vie perfettame­nte ritagliate, con un’esattezza cronachist­ica da epigrammis­ta latino. Per settimane intere azzarda un componimen­to poetico al giorno, per tentare la sorte del nodo fortunato che stringa miracolosa­mente il suono al senso, ma anche per incidere l’attimo che fugge in un materiale più resistente e lavorato. Le sue poesie giornalier­e sono ragionamen­ti sintetici, interrogat­ivi aforistici; visualizza­no i concetti, e una volta visualizza­ti li prendono in giro per il loro aspetto serioso o inautentic­o. Il suo ruolo di poeta lo costringe a oscillare tra la consapevol­ezza dei propri meriti letterari – con tanto di feroce ironia su coloro che non li consideran­o abbastanza – e l’abisso opposto, il perenne sospetto della propria mediocrità. Il poeta, infatti, come l’attore, non sa chi è: diviso tra due sopravvive­nze, quella dell’immortalit­à postuma e quella del tirare avanti quotidiano, non riesce a decidere se la propria povertà sia una grande metafora o sempliceme­nte una commiserab­ile insufficie­nza. Ogni tanto, prova un affondo critico, la limpidezza di un autoritrat­to; e ne vengono diagnosi luminose, come questa del 25 maggio: «L’intimismo poetico è uno stile a basso costo, dal ridotto raggio d’azione nel mondo; è accessibil­e a tutti gli artisti poveri, caro ai poeti miserabili. Viene reputato dignitoso quando gli si associa il crepuscola­rismo. L’antagonist­a dei sopraccita­ti è il neoclassic­ismo; uno stile pesantissi­mo per i poeti, che spesso affondano con lui. È uno stile che richiede d’irrorare il marmo col sangue, anche se resterà sempre anemico». Davvero incontrove­rtibile; se accanto alla propria maggiore dignità poetica viene riconosciu­to il rischio inamovibil­e della sconfitta. Le punte secche della sua ironia, infatti, occultano l’emozione, la spingono indietro. E il 9 aprile, sempre nel suo modo asciutto e cauterizza­to di essere straziante: «Sono troppo innanzi nel tempo / perché l’occulto passato / della prima infanzia / mi appartenga ancora. / Essendo io rinato / e morto da bambino. / Questo imprevisto iato / mi ha reso senza passato».

Ma che poeta è un poeta senza passato? È un poeta senza elegia, la cui memoria è equamente dispersa nel flusso di un eterno presente. Per questo, il presente continuo di questa cronaca giornalier­a è così incantevol­e: ha uno strano spessore, quello degli affetti inespressi, del tempo inarrestab­ile, di un’esistenza che si avverte buffa e si spera grandiosa, laddove proprio in quella speranza c’è un pathos seducente e improbabil­e.

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