Cronache quotidiane di grazia straordinaria
Valentino Zeichen. Con «1999» inizia la pubblicazione dei diari del poeta
Più volte, nel suo Diario 1999, Valentino Zeichen si preoccupa del fatto che la sua ottima reputazione di cuoco possa scalzare quella di poeta. Del resto, il cibo è una delle sue ossessioni: quasi tutte le note più severe sono rivolte al modo in cui viene sfamato, da amici e conoscenti borghesi. I dispensatori d’inviti, dei quali ha bisogno, Zeichen li prende all’amo del cattivo cibo che ammanniscono, per distrazione e superficialità, rovesciando quasi la loro dovizia in miseria morale. Il poeta sa che il cibo è la sostanza, la verità delle persone: non solo è il tornaconto dell’indigente, ma anche la radiografia che svela il nucleo delle strutture sociali ed economiche, quelle che giacciono al centro delle apparenze. I discorsi di poesia, di filosofia e di storia, invece, sono semmai la moneta spicciola da spendere a comando, il malinconico servizio reso alla comunità pagante dalla maschera pubblica di poeta, indossata una volta per sempre nella costruttiva società dei ruoli fissi.
Il Diario 1999 – con cui la casa editrice Fazi intraprende la pubblicazione di tutti i diari lasciati da Zeichen – vede il poeta registrarsi in brevi note quotidiane, inchiodando una giornata a un episodio, a una frase scambiata al telefono, a un piatto gustato. In quell’anno Zeichen è alle prese con un libro di poesie su Roma che lo assilla e lo delude – il futuro Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, uscito nel 2000 –, lotta contro un’inaspettata aridità poetica, fa parte di una delegazione di scrittori italiani invitati in Cina, accetta inviti al mare, si preoccupa delle proprie magre finanze, prende l’influenza e geme sobriamente sulla propria solitudine di malato, registra gli scacchi e i trionfi della propria squadra del cuore come anche della propria vita amorosa, mettendo a confronto la cattiva salute con i doveri dell’esibizione mondana. Eppure, queste pagine hanno una grazia straordinaria, e un’eleganza semplice, che legano il lettore, lo avvolgono – pur nella loro estrema misura – in un’idea di verità totale.
Zeichen, infatti, ha avuto molto rispetto per il proprio diario. Sia in versi, sia in prosa, le sue note hanno una lingua accurata, che incastona termini tecnici e appare quasi curiale, priva di confidenze gergali. La sua espressione è seria, notarile; le sue tranches de vie perfettamente ritagliate, con un’esattezza cronachistica da epigrammista latino. Per settimane intere azzarda un componimento poetico al giorno, per tentare la sorte del nodo fortunato che stringa miracolosamente il suono al senso, ma anche per incidere l’attimo che fugge in un materiale più resistente e lavorato. Le sue poesie giornaliere sono ragionamenti sintetici, interrogativi aforistici; visualizzano i concetti, e una volta visualizzati li prendono in giro per il loro aspetto serioso o inautentico. Il suo ruolo di poeta lo costringe a oscillare tra la consapevolezza dei propri meriti letterari – con tanto di feroce ironia su coloro che non li considerano abbastanza – e l’abisso opposto, il perenne sospetto della propria mediocrità. Il poeta, infatti, come l’attore, non sa chi è: diviso tra due sopravvivenze, quella dell’immortalità postuma e quella del tirare avanti quotidiano, non riesce a decidere se la propria povertà sia una grande metafora o semplicemente una commiserabile insufficienza. Ogni tanto, prova un affondo critico, la limpidezza di un autoritratto; e ne vengono diagnosi luminose, come questa del 25 maggio: «L’intimismo poetico è uno stile a basso costo, dal ridotto raggio d’azione nel mondo; è accessibile a tutti gli artisti poveri, caro ai poeti miserabili. Viene reputato dignitoso quando gli si associa il crepuscolarismo. L’antagonista dei sopraccitati è il neoclassicismo; uno stile pesantissimo per i poeti, che spesso affondano con lui. È uno stile che richiede d’irrorare il marmo col sangue, anche se resterà sempre anemico». Davvero incontrovertibile; se accanto alla propria maggiore dignità poetica viene riconosciuto il rischio inamovibile della sconfitta. Le punte secche della sua ironia, infatti, occultano l’emozione, la spingono indietro. E il 9 aprile, sempre nel suo modo asciutto e cauterizzato di essere straziante: «Sono troppo innanzi nel tempo / perché l’occulto passato / della prima infanzia / mi appartenga ancora. / Essendo io rinato / e morto da bambino. / Questo imprevisto iato / mi ha reso senza passato».
Ma che poeta è un poeta senza passato? È un poeta senza elegia, la cui memoria è equamente dispersa nel flusso di un eterno presente. Per questo, il presente continuo di questa cronaca giornaliera è così incantevole: ha uno strano spessore, quello degli affetti inespressi, del tempo inarrestabile, di un’esistenza che si avverte buffa e si spera grandiosa, laddove proprio in quella speranza c’è un pathos seducente e improbabile.