Delirio per un idolo femminile e una Milano gelata
Dopo il successo del suo primo romanzo, Gli autunnali, Luca Ricci torna alla misura prediletta del racconto, e imprime un giro di vite al suo immaginario. All’autunno succede l’inverno, a un’ingrigita Roma una vetrificata Milano, all’ossessione per una donna-immagine quella per una donna-corpo, assediata e offesa e sconciata nei sotterranei-labirinto della metropoli.
Chi in questi anni sia stato avvinto dalla scrittura scintillante di Ricci potrà restare sorpreso da una stesura brusca, a sua volta rastremata dal gelo. Ma alla base di questa storia, spiccia e risoluta come la città che a suo modo celebra, c’è un’invenzione di stile non meno virtuosistica che in passato: la voce di chi dice «io», controfigura dell’Uomo del Sottosuolo dostoevskiano (allusiva la sua «vita di sotto», negli enfers dell’underground). L’«uomo della metropolitana» – della cui rispettabile vita «di sopra» poco o nulla sappiamo – non ostenta i rancori sobbollenti, la claustrofobia morale del suo avatar pietroburghese (o delle sue passate reincarnazioni: da Landolfi a Sartre, da Ernesto Sabato a Thomas Bernhard). È al contrario, in apparenza, uno soddisfatto di sé e del suo anticonformismo: che si esalta al confronto colle consumistiche smanie dei suoi concittadini, i loro sentimentalismi grossolani, le loro ridicole convenzioni. La sua abiezione è un «antidoto al Natale di Milano».
Ma, come sempre nelle storie di Ricci, incrina la solidità delle apparenze una linea scura, una febbre, un’ossessione. L’uomo della metropolitana tutti i giorni sprofonda nel suo abisso personale; in quei convogli costipati ogni volta è ipnotizzato da un volto, da un corpo; e quel volto idolatra, quel corpo insegue, sfiora, molesta. Non solo la sua mano è
morta, lo è tutto il suo essere: mentre «cerca di primeggiare nel degrado, eccellere nel disonore». E si sorprende di quanto spesso quelle donne non insorgano, non denuncino, non si sottraggano. Fino a quando s’imbatte in Martina, studentessa esile dalla «passività» che gli pare «solenne» e «divina». L’escalation della degradazione li trascinerà negli abissi come un vento infernale – «fino in fondo», lo esorta lei. In quel «loco d’ogni luce muto» scopriranno una disperazione muta e speculare. Viene allora in mente un altro spin off di Dostoevskij, Un amore di Buzzati (citato in esergo, e nel titolo): tanto meno rigoroso nella stesura quanto del pari vorticante nel «fisso delirio» per un idolo femminile dalla sacra laconicità, la giovanissima prostituta Laide (che «era autunno, era la disperazione, l’amore»). Anche lì, coprotagonista memorabile, Milano col suo «estenuato torpore». Se Buzzati ci dice troppo, Ricci ci dice il meno possibile. Ma è proprio così che, senza remissione, ci porta fino in fondo.