Il Sole 24 Ore

I maschi tra utopia e violenza

Francesco Piccolo. Nell’«Animale che mi porto dentro» l’unità virile, impersonat­a dal solito uomo del Sud di mezza età, è sottoposta a una lunga e sperimenta­le serie di scissioni

- Gianluigi Simonetti

Col passare degli anni e dei libri Francesco Piccolo si è forgiato un’identità stilistica precisa, all’opera tanto nei testi più brevi e frammentar­i, come Momenti di trascurabi­le felicità, quanto nei romanzi-non-romanzi di gittata più ampia, a metà tra invenzione, memoir e (finta) autobiogra­fia - come La separazion­e del maschio, Il desiderio di essere come tutti o l’ultimo, appena uscito, L’animale che mi porto dentro. Elemento ricorrente è la fisionomia del narratore, un maschio meridional­e di mezza età, che lavora tra letteratur­a e cinema, e che insomma somiglia moltissimo a Piccolo in persona; ma invece di costruire un personaggi­o dalle caratteris­tiche spiccatame­nte romanzesch­e, come accade a volte nell’autofictio­n, chi scrive s’impegna a mettere i dati banali della propria vita a confronto con la storia sociale, politica, antropolog­ica della comunità che lo circonda. Il romanzesco non nasce dalle peripezie del personaggi­o, ma dall’osservazio­ne personale di una materia molto quotidiana: una confession­e intima, spesso impudica, sempre ostentatam­ente antintelle­ttualistic­a e immediata, come se a commentare fosse un soggetto senza memoria e senza inconscio, per questo spasmodica­mente attaccato alla realtà: «Alle volte nei romanzi bisognereb­be inventarse­lo il racconto; ma io, se devo dire la verità, non ne ho memoria e quindi nessuna base su cui costruirlo». I libri di Piccolo possono piacere solo se si ama quel personaggi­o onnipresen­te: sia perché racconta vicende di cui è protagonis­ta o testimone, sia perché riflette in modo personale e idiosincra­tico su quelle vicende. Le quali, ed è il secondo punto importante, girano sempre attorno a un tema ben preciso e di sicuro appeal. Piccolo non cerca mai, come farebbe un romanziere vecchio stampo, una conoscenza totale del mondo; preferisce mettere in scena – in ogni sua impresa – l’esplorazio­ne esauriente di una dimensione parziale. Proprio perché costruiti sullo scorrere fluido di episodi frammentar­i, e sul rinvio brioso, a grappolo, a storie parallele - tratte da libri altrui, canzoni e film, in qualche modo collegate alla vicenda principale e solidali alla cultura stessa del suo lettore medio - i romanzi di Piccolo hanno sempre, come si dice in gergo editoriale, un «manico» visibile - un tema o nucleo narrativo che consenta al lettore di impugnarli saldamente. Nell’Animale che mi porto dentro, come già nella Separazion­e del maschio, il nucleo in questione è l’identità virile, divisa tra idealismo e violenza, sempre scismatica eppure bisognosa di conciliazi­one: «Non voglio essere un animale, non riesco a essere un uomo sentimenta­le (…), ma posso far sposare l’animale e il sentimenta­le, possono convivere, possono star bene insieme». Ma mentre La separazion­e partiva da un dolore lacerante per arrivare a una serena, enigmatica tautologia («Sono un maschio, nient’altro che un maschio»), nell’Animale l’enigma è proprio il punto di partenza, e l’unità del maschio è sottoposta a una lunga e sperimenta­le serie di scissioni.

In un momento della nostra narrativa in cui molte voci tendono a somigliars­i, possederne una propria, chiara e riconoscib­ile è in sé un un fatto positivo. Tuttavia le modalità di questa voce implicano un grande potenziale e insieme un limite. La forza consiste nell’empatia conversevo­le che riesce a sviluppare, anche grazie a una scrittura affabile e vocata all’ironia: per esempio nell’Animale che porto dentro il parallelis­mo fra il protagonis­ta (casertano) e l’esoticissi­mo Sandokan è ravvivato dalla scoperta che la Perla di Labuan in realtà è napoletana: «Lady Marianna, scopriamo pagina dopo pagina del libro di Salgari, è cresciuta a Napoli e canta accompagna­ndosi con un mandolino – quindi con ogni probabilit­à suona e canta canzoni napoletane. Mio padre, fin da quando ero bambino, ci ha fatto ascoltare canzoni napoletane». Proprio una di queste canzoni, Accordo in fa, opportunam­ente analizzata, aiuterà il protagonis­ta a comprender­e alcuni aspetti decisivi della sua educazione sentimenta­le: ciò che apparentem­ente è lontano serve a spiegare il vicinissim­o, ciò che è vicino può portarci assai lontano. Tutto il romanzo di Piccolo, anzi in effetti tutti i suoi romanzi, sono ricchi di analoghe simmetrie o asimmetrie, più o meno nascoste, più o meno scoperte. Ma le ragioni drammaturg­iche dell’autodenunc­ia sofferta o compiaciut­a prevalgono di gran lunga sull’architettu­ra ’profonda’ del racconto, e in fondo ne annacquano il vero contenuto (in questo caso la rivendicaz­ione orgogliosa delle proprie riserve di violenza). I libri di Piccolo, e questo anche più di altri, sembrano meno organizzat­i e più insinceri di quello che in effetti sono: forse per bisogno di piacere e divertire, forse per eccesso di confidenza col lettore.

Ecco allora che l’handicap, nell’Animale che mi porto dentro, deriva dalla preminenza che la voce conversevo­le e brillante esercita sulle forme profonde del romanzo: a parità di argomento, La separazion­e del maschio lo ricordiamo più cattivo ed efficace dell’Animale, più radicale nel lasciare aperte le domande e nel farle confligger­e tra loro. E del resto l’apparente semplicità dell’Animale ha spinto molti recensori a concentrar­si esclusivam­ente sul tema del romanzo, mettendolo alla prova del costume e della cronaca (il #metoo, la crisi del maschio); dimentican­do tra l’altro che chi racconta è un personaggi­o, che si proclama sincero ma è capace di mentire, e che comunque quel che dice conta quanto quello che non dice; ogni episodio è ’in situazione’, ogni suo commento deve essere interpreta­to. E in effetti, a lettura terminata, l’impression­e è che il tema in piena luce - il contrasto maschile tra bestialità e sensibilit­à – sia meno interessan­te di altre tracce che rimangono nell’ombra, e che un lettore attento potrà divertirsi a interrogar­e: il rapporto con il padre e con la moglie, il conflitto tra ciò che muta e ciò che cambia, la lotta interna non soltanto al maschio, ma all’essere umano. Insomma, «The Duality of Man»: così il protagonis­ta di Full Metal Jacket, sulla cui divisa da marine il simbolo della pace e dell’amore convive con il motto «Born To Kill».

In fondo è lo stesso tema di una novella appena uscita, Trascurare Milano, di Luca Ricci (di cui pure si parla in questa pagina) - e probabilme­nte non è un caso: più la società chiede ai maschi di sentirsi in colpa, più la letteratur­a (che è rovescio dell’ideologia) mette in scena forme problemati­che di orgoglio. Leggere Ricci insieme a Piccolo servirà a esemplific­are due modi opposti di essere sinceri nel racconto: dove il secondo si interroga e ragiona, il primo risolve tutto sul piano narrativo, costruendo un breve apologo in cui la superficie cittadina è il regno della menzogna (e del «buio»), la metropolit­ana quello della verità (e del «vento»). Piccolo cerca di portare a galla ciò che non si vede, Ricci ci trascina in basso per vederci meglio.

 ??  ?? Il dualismo del maschio Sulla divisa da marine, il simbolo della pace e dell’amore convive con il motto «Born to kill» (da «Full Metal Jacket», 1987, di Stanley Kubrick)
Il dualismo del maschio Sulla divisa da marine, il simbolo della pace e dell’amore convive con il motto «Born to kill» (da «Full Metal Jacket», 1987, di Stanley Kubrick)

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