Il Sole 24 Ore

La manovra ufo approvata dal Senato alla bersaglier­a

- Paolo Armaroli paoloarmar­oli@alice.it

Ibilanci dello Stato sono cose talmente serie che i regolament­i parlamenta­ri dedicano alla loro discussion­e un’apposita sessione di ben tre mesi. Da ottobre a dicembre. Mai era però capitato che le Camere fossero costrette a dare disco verde in pochi giorni. E in zona Cesarini, come ha detto in gergo calcistico Giuseppe Conte. Per di più, a una scatola chiusa. Un ufo, un oggetto non riconosciu­to. E nulla più. Perché – a pensar male si fa peccato ma s’indovina, come sosteneva quella vecchia volpe di Giulio Andreotti – se ci fosse stato il tempo di aprire quella scatola, nessun parlamenta­re dotato di un minimo di comprendon­io l’avrebbe approvata. Perciò la maggioranz­a si è turata il naso e ha buttato giù l’amara pillola. Magari con un pensierino a Tertullian­o, passato alla storia per il suo “Credo quia absurdum”.

In effetti, a Palazzo Madama è andato in scena il teatro dell’assurdo. La Camera dei deputati, alla quale il governo aveva mandato in prima lettura il provvedime­nto, ha discusso una manovra farlocca. Perché era quella precedente all’intesa con l’Europa. E il governo, sfidando il ridicolo, ci ha messo sopra pure la questione di fiducia. Dopo di che, in omaggio al nostro bicamerali­smo paritario, la palla è passata al Senato. Ma la palla vecchia, beninteso. In attesa di quella nuova uscita dagli accordi tra Conte e Juncker. Arrivata con tutto comodo nell’aula del Senato solo alle ore 14 del 22 dicembre. Con il risultato che la commission­e Bilancio ha sì discusso in sede referente fino al 20 dicembre il testo della Camera. Ma non ha mai esaminato il megaemenda­mento del governo di 1.100 e passa commi – una follia – sul quale di lì a poco avrebbe posto la questione di fiducia.

La commission­e Bilancio si è poi riunita in sede consultiva per solo due ore e qualche spicciolo lo stesso 22 dicembre per approvare la proposta di parere del relatore, il presidente grillino Pesco. Che ha sottoposto il nuovo testo del governo ad alcune condizioni e osservazio­ni. Ma con il sottinteso che in realtà tutto andava bene, madama la marchesa. E il sospetto è che quei paletti siano stati forse suggeriti dal ministro Fraccaro. Che così ha potuto sanare alcuni strafalcio­ni definiti soavemente banali errori tecnici. A riprova che la gatta, per fare in fretta, fece i gattini ciechi. D’altra parte non è un mistero che l’inesperien­za associata all’incompeten­za è una miscela esplosiva. Il bello è che giusto un anno fa, il 20 dicembre 2017, il Senato ha approvato una serie di modifiche al proprio regolament­o. E una delle più significat­ive è per l’appunto l’importanza accordata all’istruttori­a legislativ­a in commission­e. Parole al vento, con il senno di poi.

In assemblea, poi, è successo di tutto. Si è discusso alla bersaglier­a un megaemenda­mento alla cieca. Perché nessuno ne aveva esatta contezza. La seduta, il 22 dicembre, è iniziata alle 14 e si è conclusa alle 3 di notte. Una minuscola maratona sospesa per oltre due ore allo scopo di permettere alla predetta commission­e di dire la sua in sede consultiva. Così l’articolo 72 della Costituzio­ne è stato platealmen­te disatteso. Perché i provvedime­nti, prima di passare all’assemblea, dovrebbero essere esaminati in sede referente dalla commission­e. Il che non è accaduto. Perciò il senatore Marcucci, capogruppo del Pd e renziano di stretta osservanza, ha minacciato il ricorso diretto alla Corte costituzio­nale. Sta di fatto che la nostra Costituzio­ne – a differenza della tedesca, della francese, della spagnola e della portoghese – non prevede un potere delle opposizion­i al riguardo. Né è configurab­ile un conflitto di attribuzio­ni perché un gruppo parlamenta­re non è un potere dello Stato. E poi, contro chi? Contro lo stesso Senato? Siamo al fantadirit­to costituzio­nale.

La verità è che a Palazzo Madama abbiamo visto la riedizione dei tempi moderni di Charlie Chaplin. Una catena di montaggio senza capo né coda. Il governo ha accampato l’alibi dello stato di necessità. Pena l’esercizio provvisori­o. Ma se siamo arrivati agli sgoccioli di quest’anno è perché l’interlocuz­ione con l’Europa è stata un continuo tira e molla. Sul “Sole 24 Ore” di domenica Sergio Fabbrini ha messo i puntini sulle i. Ha ricordato che tutto questo è potuto accadere perché alla fine d’ottobre il nostro governo ha cambiato unilateral­mente le carte in tavola. Così smentendo apertament­e le decisioni prese in precedenza. Abbiamo fatto i furbi. Ma ci è andata male. Non è servito a nulla trincerars­i dietro quel 2,4% grazie al quale Di Maio – pensate un po’ – era convinto di abolire la povertà. Alla vigilia di Natale, poi, Conte ci ha dato la buona novella. Ha avuto l’ardire di dichiarare – una parola di presidente del Consiglio che fa il paio con la parola di re di Faruk al tavolo di poker – che la manovra mantiene integre le misure del contratto di governo ed è un successo per la nostra democrazia. Prosit.

Dopo il danno, le opposizion­i hanno subìto la beffa. More solito, le dichiarazi­oni di voto finali hanno avuto l’onore della diretta televisiva. Ma sono andate in onda a mezzanotte e dintorni. Per la gioia di pochi intimi. E adesso la Camera fischierà in quattro e quattr’otto il finale di partita. Si poteva fare di meglio? Di sicuro. Sarebbe bastato tenere aperte le Camere senza interruzio­ni dal 22 dicembre a fine anno e lavorare di continuo. Prima in commission­e e poi in assemblea, come stabilisce la Costituzio­ne. A dire il vero, governanti e parlamenta­ri non si sono ammazzati di fatica in questi mesi. Ma gli uni e gli altri hanno pensato bene – beati loro – di concedersi un altro po’ di riposo. Con tanti saluti al popolo bue.

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