Lo storico che sfidò l’intelletto
Tucidide
Nella carriera di un lettore la lettura integrale di Tucidide rappresenta un traguardo. La sua Guerra del Peloponneso, infatti, deve figurare nel’elenco dei libri fondamentali, perché, con la potenza dell’arte, ci informa su una delle crisi più sconvolgenti del mondo antico: il quasi trentennale conflitto tra Atene e Sparta, conclusosi con la sconfitta della prima. Terminava così, nel 404 a. C., quel cinquantennio di felicità politica durante il quale Atene, uscita vincente dalle guerre persiane, si era innalzata a guida ideologica della Grecia e, grazie all’amministrazione e alla propaganda di Pericle, aveva preparato per i posteri un paradigma di civiltà e una delle versioni più memorabili della cosiddetta classicità.
Arrivare in fondo alla lettura, però, non è cosa per tutti. Tucidide è difficile. Dei classici antichi è forse il più difficile, e volutamente. Fece della sfida all’intelligenza uno stile. Notizie, analisi, giudizi, punti di vista li organizza in una comunicazione serrata, omissiva, ardua, quasi mai concedendo spazio all’aneddoto o alla digressione, diversamente dal predecessore Erodoto, preferito, non a caso, dai romanzieri. Per chi, poi, si prova a leggere Tucidide direttamente nella sua lingua la fatica, per quanto greco sappia, diventa somma. All’università, nelle esercitazioni di grammatica, passi del quinto libro della Guerra del Peloponneso – che si conclude con il famoso confronto tra Ateniesi e abitanti di Melo – ci erano sottoposti come esempi proverbiali di arduità.
Tucidide, d’altronde, non è mai parso di facile accesso neppure nell’antichità; anzi, incarnò universalmente un modello di oscurità, pur con tutta la sua capacità d’influenza, che arrivò fino a Roma (pensiamo a Sallustio, per cominciare). Osservo questo fatto solo per ricordare che la lettura di un classico, anche di un classico come Tucidide, non rientra solo tra le ambizioni e i doveri di qualche individuo, ma riguarda, deve riguardare epoche intere. La lettura dei classici è una di quelle pratiche civili che trasformano un’epoca in cultura, cioè in coscienza e autocoscienza storica. Ecco perché lo studio dell’antichità ci è necessario (e non, banalmente, utile): per mantenere vivo e continuo il più possibile il discorso sull’umanità. Ed ecco perché lo studio dell’antichità finisce per essere uno studio del presente, un modo per capire come pensiamo e come ri-pensiamo.
Ogni epoca avrà, dunque, un modo proprio di leggere i classici. Ogni epoca avrà il suo Tucidide, così come avrà il suo Virgilio, il suo Platone o il suo Cicerone. In verità, la fortuna di Tucidide è stata più che altro una sfortuna. Neppure il Rinascimento, quando si cominciò a tradurlo e rimetterlo in circolazione, gli riconobbe un posto d’onore. Come mostra un recente libro del grecista Dino Piovan, Tucidide in Europa. Storici e storiografia greca nell’età dello storicismo (Mimesis, con una postfazione di Ugo Fantasia), il vero momento di Tucide va collocato tra Otto e Novecento, quando un dibattito, se così possiamo chiamare una certa tradizione di studi, impegnò nell’interpretazione dell’opera tucididea alcuni eccellenti storici e filologi, tedeschi e italiani: Leopold von Ranke (1795-1886), F. W. Ullrich (17961880), Eduard Meyer (1855-1930), Eduard Schwartz (1858-1940), Gaetano De Sanctis (1870-1957), Aldo Ferrabino (1892-1972) e Arnaldo Momigliano (1908-1987). Nel corso di alcuni decenni le ricerche di questi uomini hanno costruito un “caso Tucidide”, come mai prima era successo, in cui si sono intrecciati storicismo, nuove ragioni filologiche, esigenze di ridefinizione professionale. Tucidide, pertanto, è servito sia come oggetto di studio in sé sia come banco di prova per il progresso dei metodi e per un rinnovamento della scienza storiografica.
Attraversando i vari capitoli dell’eccellente libro, apprendiamo che alcuni temi hanno costituito preoccupazioni costanti: la funzione dei discorsi (uno degli aspetti più distintivi e più importanti dell’opera tucididea), il punto di vista dell’autore (e, in particolare, il suo giudizio sull’imperialismo ateniese), la specificità di Tucidide rispetto a Erodoto (l’uso delle fonti, l’interesse per il contemporaneo etc.), i momenti della composizione; e più in generale, il valore della libertà ateniese, il rapporto tra realtà comunale e dimensione panellenica, le responsabilità di Atene. La questione della struttura, posta da Ullrich nel 1846 e, secondo Piovan, affrontata nella forma più soddisfacente da Momigliano, è di certo una delle più spinose e affascinanti, materia per speculazioni forse infinite, ma non per questo vane. Offre, anzi, una di quelle preziose occasioni in cui l’esame filologico porta al chiarimento non solo del testo ma di una mente. Capire, infatti, lo svolgimento del progetto – quando Tucidide cominciò a scrivere, quando finì, se e perché aggiunse certe parti o ripensò la struttura generale, magari mutando percorso o perfino lasciando tracce di contraddizione, o lasciò a un editore il compito di riorganizzare i suoi materiali – significa anche scoprire come lo storico andò formando la sua idea di guerra e la sua stessa consapevolezza di un conflitto unitario fin dall’inizio, e come modificò, adattandolo alle circostanze della guerra, via via il senso del suo mestiere.
I capitoli del libro (con l’eccezione di quello su De Sanctis e dell’introduzione) sono apparsi originariamente come articoli su riviste accademiche, nel corso degli anni Novanta. Ciò dà a ciascuno un’intensità e una precisione da indagine altamente specialistica. Consapevole di contributi successivi, Piovan ha aggregato post-scripta di complemento bibliografico. Cionondimeno, come impone l’idea di libro, uno svolgimento c’è e si avverte. La coesione tra le parti è resa evidente non solo dall’adozione dell’ordine cronologico e dalla persistenza di alcuni temi, cui ho già accennato, ma anche dalla presentazione di Momigliano come culmine o approdo: superamento sia dello storicismo di matrice rankiana e quindi crociana (i debiti che Momigliano contrasse con Croce, comunque, come Piovan dimostra, restarono a lungo determinanti) sia della filologia che si sono spartiti il controllo di Tucidide nei primi decenni del dibattito.
C’è un altro elemento di raccordo da sottolineare: la diffusa lucidità, frutto di bravura tecnica e di passione civile, con cui Piovan radiografa, in veri e propri ritratti intellettuali, la mentalità dei suoi protagonisti, chiamando in causa idealismo, Croce, Gentile, Machiavelli, perfino il sempre imbarazzante fantasma del fascismo. Sulla temperie filosofica che sostanzia il discorso porta luce la postfazione dell’autorevole Fantasia.
Piovan ci insegna che la lettura di un classico è costruzione complessa, che interessa molteplici sfere del pensiero e della vita. Il suo libro è una lodevole prova d’amore e di attitudine per gli studi classici, che starà benissimo nella biblioteca di tutti i tucididei, provetti o aspiranti, ma anche di chi, tra gli schiamazzi degli incompetenti, ancora riesce a credere nel cammino della cultura e delle idee. TUCIDIDE IN EUROPA. STORICI E STORIOGRAFIA GRECA NELL’ETÀ DELLO STORICISMO
Dino Piovan postfazione di Ugo Fantasia, Mimesis, Monfalcone, pag.180, € 18