Bruno contro corrente
«Centone bruniano». Il saggio di Antonello Gerbi, uscendo dagli schemi, sostenne il grande valore di Giordano Bruno sia come filosofo della prassi sia come metafisico e panteista
Antonello Gerbi è stato uno dei più importanti ed interessanti intellettuali italiani del XX secolo; e dico italiano solo perché era nato a Firenze. Ebreo, girò il mondo, e per consiglio, anzi decisione, di Raffaele Mattioli visse a lungo in Perù, dopo la proclamazione nel 1938 delle leggi raz
ziali ad opera del fascismo. «Lima,
Perù, 13 aprile 1941», con questa indicazione si conclude il lavoro che dedicò a Giordano Bruno, un autore che gli fu sempre carissimo, e di cui seppe afferrare con straordinario acume alcuni tratti essenziali. Centone bruniano, così si intitola il suo saggio su Bruno, pubblicato ora – e di questo va dato merito all’editore – con una interessante nota di Sandro Mancini.
Gerbi, come ben si sa, non scrisse però solo intorno a Bruno. A lui si devono opere fondamentali: Il peccato di
Adamo ed Eva, 1933 (su cui ha scritto un notevole saggio Enrico Rambaldi);
La disputa del Nuovo Mondo, 1955; La natura delle Indie Nove, 1975. E tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta aveva già pubblicato due altri libri importanti, che occorre ricordare per comprendere come e perché si avvicini a Bruno: La politica del Settecen
to, 1928, e La politica del Romantici
smo, 1932, nei quali sono già presenti riferimenti al Nolano.
Quando viene composto il Centone
bruniano gli studi sul filosofo sono ancora dominati dalla interpretazione di Giovanni Gentile, che messa a fuoco nei primi del secolo si era imposta anche a chi, come Augusto Guzzo, cercava di elaborare una propria visione della Musa nolana. Essa è imperniata su un nucleo centrale: Bruno era stato un «contemplativo», non un uomo pratico: «Il suo mondo – scrive Gentile nel grande saggio sulla Veritas
filia temporis, pubblicato nel 1912 – non è quello della vita, ma quello della contemplazione, non è quello della storia, ma quello della natura: la sua stessa etica dello Spaccio finisce negli
Eroici furori, che sono sublimazione della mente nel processo della verità».
Gerbi capovolge questa impostazione, si concentra su Bruno «filosofo della prassi» proponendosi di mostrare che «la grandezza di Bruno come filosofo della prassi non è inferiore a quella del filosofo metafisico e
panteista». Questo è il punto centrale
della sua visione della esperienza umana, intellettuale, civile del Nolano. Ma filosofia della prassi non è un'espressione neutra, anzi.
Essa è utilizzata per primo da Antonio Labriola a proposito di Marx; è ripresa da Gramsci nei Quaderni del
carcere sostituendola al termine “marxismo”: era dunque ben radicata in una determinata corrente filosofica e politica. Ma anche Guido Calogero, come rileva Croce sulla «Critica» nel 1935 – e Gramsci lo annota – «chiama filosofia della praxis una propria interpretazione dell’idealismo gentiliano». Né questa vicinanza lessicale, e teorica, stupisce se si tiene conto della interpretazione che Gentile – maestro di Calogero – aveva proposto della filosofia di Marx nei suoi scritti giovanili sottolineando con vigore, appunto, la funzione, e il significato, della praxis.
Erano questioni, e discussioni, di cui Gerbi era a conoscenza; e lo dimostra il riferimento esplicito che fa nel
Centone alla «dialettica marxistica del rovesciamento della prassi col primato dell'agitatore rivoluzionario sul placido e soddisfatto borghese», dopo aver citato, e lodato, la «completa distruzione dell’eudemonismo» operata da Bruno.
Quando propone la sua interpretazione di Bruno Gerbi è dunque pienamente consapevole dello spessore filosofico della definizione che utilizza, senza peraltro essere vicino né a Marx, né a Gentile. Aveva rapporti assai stretti con Croce, il quale lo aiutò a pubblicare presso Laterza la sua tesi di laurea sulla Politica del Settecento e lo raccomandò, insieme a Luigi Einaudi, per una borsa della Rockefeller Foundation, che gli permise di studiare tra il 1929 e il 1931 a Berlino, Londra, Vienna. Ma Croce, e anche questo va ricordato per capire la genesi di quella definizione, nel 1938 aveva pubblicato sulla «Critica» il saggio su Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, nel quale, alla luce dei propri ricordi, discorre a lungo proprio dei suoi rapporti con Labriola. E nel 1909 aveva pubblicato la Filosofia della pratica, un libro assai importante per Gerbi.
Presentando Bruno in quel modo Gerbi andava dunque contro corrente e si distaccava con nettezza da quella che era allora la vulgata negli studi bruniani, da cui nello stesso periodo, e anche in questo caso in modo autonomo, si stava allontanando Antonio Corsano che nel 1940 pubblica il suo fondamentale libro sul Pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, nel quale vengono per la prima volta valorizzate in modo organico le opere magiche e il ruolo e la funzione di Bruno come “riformatore”, secondo una linea che s’incrocia con quella di Gerbi.
Filosofia della prassi – e anche «filosofia dell’azione» – dunque, e ripensamento a questa luce del significato della coincidentia oppositorum, da cui in Bruno discende quel «senso della “fecondità della rottura” che è proprio dei rivoluzionari (tipico, anzi classico esempio Rousseau), mentre dà un brivido freddo ai cattolici, aggrappati alle funi della tradizione, e un brivido freddissimo ai razionalisti, paurosi di strappare il filo unico e rettilineo del Progresso». Esso in Bruno «si manifesta» – e sono parole in cui si esprime in modo nitido l’interpretazione di Gerbi – «con stupefacente ripetizione, contro tutte le forze dell’inerzia e dell’omogeneità, contro il peso del passato, contro l’immobilità della natura, contro l’uniformità (naturalistica) della razza e dell’istinto, contro l’autorità della tradizione, contro l’assolutezza della rivelazione. Non c’è quasi limite di astrazioni, di dogmi o di opinioni venerande per antichità, contro cui Bruno non sferri un colpo di lancia».
Questo è dunque il nucleo centrale dell’esperienza del Nolano secondo Gerbi, che sviluppa la sua interpretazione sia attraverso una serie di osservazioni spesso assai originali sui testi sia mettendo a fuoco aspetti centrali della fortuna di Bruno presso i libertini, fino ai romantici, a Hamann, a Goethe, con una padronanza straordinaria della letteratura europea moderna.
Ma oggi, anche alla luce dei nuovi studi, ciò che resta, e continua a imporsi come un’acquisizione, è la sua visione di Bruno come filosofo della prassi, filosofo dell’azione (e anche su questa definizione che ci riporta alle filosofie della libertà tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento conviene richiamare l’attenzione del lettore). Le nuove edizioni dei testi di Bruno, e le nuove interpretazioni critiche, hanno confermato pienamente l'acutezza di quella intuizione, anzi l'hanno estesa ad altri protagonisti del Rinascimento italiano ed europeo – a cominciare da Niccolò Machiavelli.
CENTONE BRUNIANO
Antonello Gerbi
A cura di Francesco Rognoni e Silvia Berna, con uno scritto di Sandro Mancini, Sedizioni - Diego Dejaco editore, Milano, pagg. 195, € 22