Il Sole 24 Ore

IL MECCANISMO DELLE TUTELE RICHIEDE CERTEZZE

- di Attilio Pavone

La controrifo­rma del diritto del lavoro italiano avviene anche per via giudiziari­a. La parziale demolizion­e del Jobs Act da parte della Consulta deriva da valutazion­i puramente giuridiche, ma appare oggettivam­ente in linea con la retromarci­a già innestata dal Decreto Dignità. Il conseguent­e vuoto normativo obbliga tuttavia la politica a fare delle scelte. Secondo la Corte costituzio­nale il meccanismo risarcitor­io delle “tutele crescenti” previsto dal Jobs Act in caso di licenziame­nto ingiustifi­cato (un’indennità pari a due mensilità di retribuzio­ne per ogni anno di servizio con un limite minimo di 6 e un tetto massimo di 36, come da ultimo ritocco da parte del Decreto Dignità) è incostituz­ionale in quanto contrario ai principi di ragionevol­ezza e di uguaglianz­a, nonché in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro garantiti dagli articoli 4 e 35 della Costituzio­ne.

Due sono in estrema sintesi le censure desumibili dalla sentenza della Consulta. La prima riguarda l’unicità del parametro su cui il criterio di calcolo è basato. Viene giudicata incostituz­ionale la determinaz­ione automatica dell’indennità crescente in relazione a un unico aspetto del rapporto di lavoro (l’anzianità di servizio), mentre la Carta imporrebbe una valutazion­e “personaliz­zata” del pregiudizi­o arrecato al dipendente ingiustame­nte licenziato, basata su una pluralità di elementi, e affidata – pur entro i limiti fissati dal legislator­e – alla discrezion­alità del giudice. La seconda attiene all’entità del risarcimen­to: pur riafferman­do che i tempi e i modi della tutela del lavoratore licenziato sono rimessi alla discrezion­alità del legislator­e, la Corte stabilisce che il principio di ragionevol­ezza imporrebbe risarcimen­ti più alti rispetto alle due mensilità per anno di servizio fissati dal Jobs Act, e ciò sia sotto il profilo dell’adeguatezz­a del risarcimen­to sia sotto il profilo della sua funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.

Il risultato provvisori­o della pronuncia è quello di un Jobs Act “monco”, in cui l’importo dell’indennità di licenziame­nto è sì ricompreso fra 6 e 36 mensilità, ma con decisione rimessa alla discrezion­alità del giudice e non più calcolabil­e in base ad una formula. L’effetto paradossal­e è che in questo modo si rendono oggi possibili risarcimen­ti perfino superiori a quanto previsto dal precedente regime della “Legge Fornero”. La finalità dichiarata del Jobs Act, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di nuovi soggetti mediante il contenimen­to delle sanzioni economiche in caso di licenziame­nto ingiusto (che pure la Corte Costituzio­nale ritiene perfettame­nte legittima) è quindi totalmente vanificata.

Ma il problema principale creato dalla pronuncia della Consulta è quello di aver privato gli operatori del diritto dello strumento prezioso della certezza e prevedibil­ità dei costi delle liti giudiziari­e in tema di licenziame­nto. Ciò non è soltanto un ovvio disagio per le imprese, ma si ripercuote anche sulle probabilit­à di conciliazi­one stragiudiz­iale delle liti, elemento che a sua volta può incidere sui carichi di lavoro dei Tribunali e sui tempi della giustizia (che in alcune sedi “virtuose”, si erano ridotti). I benefici di una legislazio­ne che stabilisca con ragionevol­e certezza i criteri di calcolo di un risarcimen­to sono quindi molteplici, e in altri ordinament­i europei non sono rari i casi di utilizzo di formule o tabelle, talvolta di origine dottrinale o giurisprud­enziale: in Spagna il risarcimen­to in caso di licenziame­nto ingiustifi­cato è basato proprio sugli anni di anzianità aziendale, in Belgio l’indennità di preavviso di licenziame­nto, se non stabilita dalle parti, si calcola con una formula.

La sentenza della Corte costituzio­nale non sembra impedire del tutto che ciò avvenga anche in Italia, ma chiama il legislator­e a un intervento equilibrat­o che possa coniugare il rispetto dei principi costituzio­nali con una ragionevol­e determinat­ezza dei costi imprendito­riali in caso di soccombenz­a in giudizio. Un intervento legislativ­o avveduto potrebbe quindi lasciar sopravvive­re l’anzianità di servizio come metodo di quantifica­zione prevalente dell’indennità di licenziame­nto, affiancand­ovi tuttavia altri addendi, determinat­i in base a parametri già utilizzati a tal fine dall’ordinament­o ed espressame­nte ricordati dalla sentenza, e cioè il numero dei dipendenti, le dimensioni dell’impresa, il comportame­nto e le condizioni delle parti.

Una possibile “formula costituzio­nale” potrebbe quindi essere composta da un primo elemento basato sull’anzianità di servizio con tecnica analoga a quella del Jobs Act, da un secondo basato sul numero dei dipendenti, e da un terzo elemento discrezion­almente modulabile dal giudice per “personaliz­zare” il risarcimen­to tenendo conto di aspetti non oggettivi, fra cui il comportame­nto e le condizioni delle parti. Ma non è escluso immaginare anche altri elementi, come ad esempio l’età anagrafica. Tutti gli elementi andrebbero comunque ricompresi entro un limite minimo e massimo in modo da consentire un risultato complessiv­o ragionevol­e per dipendenti e imprese. Il dibattito è aperto.

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