IL MECCANISMO DELLE TUTELE RICHIEDE CERTEZZE
La controriforma del diritto del lavoro italiano avviene anche per via giudiziaria. La parziale demolizione del Jobs Act da parte della Consulta deriva da valutazioni puramente giuridiche, ma appare oggettivamente in linea con la retromarcia già innestata dal Decreto Dignità. Il conseguente vuoto normativo obbliga tuttavia la politica a fare delle scelte. Secondo la Corte costituzionale il meccanismo risarcitorio delle “tutele crescenti” previsto dal Jobs Act in caso di licenziamento ingiustificato (un’indennità pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio con un limite minimo di 6 e un tetto massimo di 36, come da ultimo ritocco da parte del Decreto Dignità) è incostituzionale in quanto contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza, nonché in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro garantiti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
Due sono in estrema sintesi le censure desumibili dalla sentenza della Consulta. La prima riguarda l’unicità del parametro su cui il criterio di calcolo è basato. Viene giudicata incostituzionale la determinazione automatica dell’indennità crescente in relazione a un unico aspetto del rapporto di lavoro (l’anzianità di servizio), mentre la Carta imporrebbe una valutazione “personalizzata” del pregiudizio arrecato al dipendente ingiustamente licenziato, basata su una pluralità di elementi, e affidata – pur entro i limiti fissati dal legislatore – alla discrezionalità del giudice. La seconda attiene all’entità del risarcimento: pur riaffermando che i tempi e i modi della tutela del lavoratore licenziato sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, la Corte stabilisce che il principio di ragionevolezza imporrebbe risarcimenti più alti rispetto alle due mensilità per anno di servizio fissati dal Jobs Act, e ciò sia sotto il profilo dell’adeguatezza del risarcimento sia sotto il profilo della sua funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
Il risultato provvisorio della pronuncia è quello di un Jobs Act “monco”, in cui l’importo dell’indennità di licenziamento è sì ricompreso fra 6 e 36 mensilità, ma con decisione rimessa alla discrezionalità del giudice e non più calcolabile in base ad una formula. L’effetto paradossale è che in questo modo si rendono oggi possibili risarcimenti perfino superiori a quanto previsto dal precedente regime della “Legge Fornero”. La finalità dichiarata del Jobs Act, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di nuovi soggetti mediante il contenimento delle sanzioni economiche in caso di licenziamento ingiusto (che pure la Corte Costituzionale ritiene perfettamente legittima) è quindi totalmente vanificata.
Ma il problema principale creato dalla pronuncia della Consulta è quello di aver privato gli operatori del diritto dello strumento prezioso della certezza e prevedibilità dei costi delle liti giudiziarie in tema di licenziamento. Ciò non è soltanto un ovvio disagio per le imprese, ma si ripercuote anche sulle probabilità di conciliazione stragiudiziale delle liti, elemento che a sua volta può incidere sui carichi di lavoro dei Tribunali e sui tempi della giustizia (che in alcune sedi “virtuose”, si erano ridotti). I benefici di una legislazione che stabilisca con ragionevole certezza i criteri di calcolo di un risarcimento sono quindi molteplici, e in altri ordinamenti europei non sono rari i casi di utilizzo di formule o tabelle, talvolta di origine dottrinale o giurisprudenziale: in Spagna il risarcimento in caso di licenziamento ingiustificato è basato proprio sugli anni di anzianità aziendale, in Belgio l’indennità di preavviso di licenziamento, se non stabilita dalle parti, si calcola con una formula.
La sentenza della Corte costituzionale non sembra impedire del tutto che ciò avvenga anche in Italia, ma chiama il legislatore a un intervento equilibrato che possa coniugare il rispetto dei principi costituzionali con una ragionevole determinatezza dei costi imprenditoriali in caso di soccombenza in giudizio. Un intervento legislativo avveduto potrebbe quindi lasciar sopravvivere l’anzianità di servizio come metodo di quantificazione prevalente dell’indennità di licenziamento, affiancandovi tuttavia altri addendi, determinati in base a parametri già utilizzati a tal fine dall’ordinamento ed espressamente ricordati dalla sentenza, e cioè il numero dei dipendenti, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.
Una possibile “formula costituzionale” potrebbe quindi essere composta da un primo elemento basato sull’anzianità di servizio con tecnica analoga a quella del Jobs Act, da un secondo basato sul numero dei dipendenti, e da un terzo elemento discrezionalmente modulabile dal giudice per “personalizzare” il risarcimento tenendo conto di aspetti non oggettivi, fra cui il comportamento e le condizioni delle parti. Ma non è escluso immaginare anche altri elementi, come ad esempio l’età anagrafica. Tutti gli elementi andrebbero comunque ricompresi entro un limite minimo e massimo in modo da consentire un risultato complessivo ragionevole per dipendenti e imprese. Il dibattito è aperto.