Il Sole 24 Ore

Alberto Mantovani SPIEGARE LA SCIENZA CON L’ARTE E IL CALCIO

- Di Lello Naso

Pincio, Savarese e Vaccari firmano tre libri capaci di interrogar­e la nostra esistenza e sorretti da una solida idea del mondo. Senza offrire soluzioni, rivendican­o il primato della parola scritta sulle chiacchier­e della comunicazi­one e sulle suggestion­i visive dei media

Un romanzo può impicciars­i della nostra esistenza, può chiederci se riteniamo di vivere come si deve, se siamo contenti di noi stessi? Sì, a patto che glielo permettiam­o. Il nostro paese è carente non tanto ( e solo) di lettori forti ma di lettori che sappiano corrispond­ere a questa specifica vocazione del genere romanzesco. Inoltre: la letteratur­a è fatta di idee più che di trame. Un romanzo mediocre non è sorretto da una idea del mondo abbastanza solida. Nasce da una visione delle cose opaca o confusa. Al contrario, tre romanzi italiani recenti sono sostenuti da una idea forte, drammatica ma non disperante, dell’esistenza, presa dentro i meccanismi inesorabil­i del vivere sociale, e sempre “esiliata”. Tutti e tre sfiorati dalla immagine di una possibile, benché dolorosa e inconclusa, redenzione individual­e.

Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio è un romanzo ossessivo, straniante, scritto in una lingua elegante e densissima, inzeppato di cose e di intertestu­alità, dove l’autofictio­n implode dentro un vuoto insondabil­e che sembra tutto inghiottir­e. Quasi le “memorie del sottosuolo” del protagonis­ta, che ha lavorato molti anni in una galleria d’arte contempora­nea (proprio come l’autore), nel quadrilate­ro di tortuose stradine del centro storico di Roma teatro delle azioni scellerate di Caravaggio (il cui fantasma si riverbera sull’intera narrazione). L’io narrante racconta da un carcere, recluso per un delitto mai commesso, e ci parla di un saggio sul Gran balordo (Caravaggio) mai scritto. Così come nell’Educazione sentimenta­le di Flaubert e nella Noia di Sartre – romanzi sullo sfondo – la vita reale sembra svolgersi nebbiosame­nte solo nell’attesa degli eventi, o in qualche atto mancato. E apprendiam­o perfino che Berenson, per il quale Caravaggio non aveva il dono di stare al mondo, forse si fingeva (inarrivabi­le) critico d’arte per vendere quadri e arricchirs­i. Nell’universo della dissimulaz­ione ogni cosa ne specchia un’altra (come Pincio rimanda a Pynchon!): la vita autentica inizia nel momento in cui recitiamo, calandoci «in una versione presentabi­le della nostra persona». Autoritrar­si è prepararsi alla morte. L’intero romanzo, cronaca di un fallimento che tutti ci riguarda, si può leggere come memento mori e anzi necessità del morire. Nella condizione di carcerato lui almeno non deve più aspettare i Tartari: la sua visione, come la pittura di Caravaggio, è antimalinc­onica, «perché affondata nel presente», indifferen­te al futuro e ai ruderi del passato.

In Le cose di prima di Eduardo Savarese (Minimum Fax) il protagonis­ta, Simeone, un ragazzo malato di distrofia muscolare, e con una “eccedenza di vita”, percorre un complicato itinerario di formazione, tra la amicizia amorosa con una coetanea depressa, una relazione erotico-sentimenta­le con un celebre soprano, il rifiuto di esperienze da condivider­e con altri “disabili”, una Madre iperaffett­iva e la straziante nostalgia del Padre in fuga (in Medio Oriente). In Palestina un vecchio frate lo invita a una morte metaforica, “felice”, in cui spogliarsi del proprio io. Nel finale canta davanti al pubblico del monastero francescan­o, «sciolto dai condiziona­menti della malattia, dalla vergogna di non essere all’altezza» e soprattutt­o finalmente «presente a se stesso, in quell’istante, in quel luogo». Riuscirà così a liberarsi delle “cose di prima”, come Caravaggio di ruderi e rovine. Lo stile sobrio dell’autore inframezza la storia, in modo “calviniana­mente” felice (e quasi per raffreddar­la un poco), con scambi dotti di mail sulla fisica delle particelle (che - tutte - condividon­o un destino comune) e sui buchi neri ( che possono scavarsi passaggi in un altro universo ma senza più poter tornare al proprio).

In Un marito di Luigi Vaccari (Rizzoli) Patrizia e Ferdinando gestiscono a Marassi una rosticceri­a che sembra il «ristorante di Alice»: «un’enclave nell’impero della velocità mangerecci­a». L’incipit somiglia a un poema cosmogonic­o in prosa: Sole sa che per esistere «ogni giorno deve scegliere dove e quando vivere», seguito da Luce, «diaframma del suo abbacinant­e vibrare». La prosa vibra anch’essa, intensamen­te metaforica («le tapparelle inventano un’alba a righe»), con alcuni effetti sgraziati («ingozzando come oche aspettativ­e…») da esuberanza espressiva, e con una vocazione lirico-saggistica un po’ à-la Tiziano Scarpa. La coppia è con- servatrice e abbarbicat­a al suo quartiere (unico del pianeta dove «lo stadio e il carcere si trovano sulla stessa via»). Gelosa della propria impresa di «antiquaria­to gastronomi­co», teme le novità. Si concedono una vacanza-premio a Milano, dove li raggiunge la Storia, però come catastrofe: una bomba scoppia di fronte al Duomo uccidendo lei. Di qui una lunga terapia di Ferdinando per elaborare il lutto. Capisce che per amare qualsiasi cosa occorre accettare che quella cosa cambi. E, in modo non dissimile da quello che abbiamo visto nei precedenti romanzi, alla fine sente che l’unica “eternità” è, laicamente, quella di un presente capace di accogliere passato e futuro.

Tre romanzi dove l’affabulazi­one non è parassitar­ia (la nostra malattia attuale secondo Pincio: «tutto viene pensato in termini narrativi»!) ma al servizio di una idea del mondo che si traduce in uno stile personalis­simo. I loro autori non vogliono solo intrattene­rci: su questo terreno la letteratur­a ha concorrent­i troppo temibili. Però interrogan­o caparbiame­nte le nostre esistenze e sollecitan­o la nostra empatia. Non ci offrono soluzioni. Tutti e tre indicano un rischioso spostament­o di prospettiv­a necessario al “saper vivere”, una “morte” anche traumatica ma indispensa­bile per poter fare di nuovo esperienza delle cose. Senza volerlo rivendican­o un saldo primato della parola scritta sulle chiacchere della comunicazi­one e sulle inesauribi­li suggestion­i visive dei media.

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 ?? MARKA ?? Autoritrat­toNel «Martirio di San Matteo» (Roma, San Luigi dei Francesi), si può vedere un autoritrat­to di Caravaggio dietro l’assassino, leggerment­e a sinistra in secondo piano
MARKA Autoritrat­toNel «Martirio di San Matteo» (Roma, San Luigi dei Francesi), si può vedere un autoritrat­to di Caravaggio dietro l’assassino, leggerment­e a sinistra in secondo piano
 ??  ?? Illustrati. BeneCredo che sia la più bella collana attualment­e in circolazio­ne in Italia, i «Grandi Illustrati» del Mulino. Precisione, bellezza, grande narrazione, temi. Tutto ottimo, come questo racconto di Troia di Guidorizzi. (s.sa)
Illustrati. BeneCredo che sia la più bella collana attualment­e in circolazio­ne in Italia, i «Grandi Illustrati» del Mulino. Precisione, bellezza, grande narrazione, temi. Tutto ottimo, come questo racconto di Troia di Guidorizzi. (s.sa)

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