Il Sole 24 Ore

«orange»: il vino scopre il quarto colore

Sono bianchi fatti come i rossi, affollano le carte di ristoranti ed enoteche di tutto il mondo e sono “diversi” anche nei profumi - Gravner: «Chiamateli ambrati»

- Di De Cesare Viola

Orange is the new white. Non sulle passerelle, ma nelle carte dei vini di ristoranti e wine bar di tutto il mondo. Da New York a Londra, da Milano a Sydney si fa spazio il quarto colore del vino: insieme a bianchi, rossi e rosati ecco anche gli orange wines, una( non) categoria che sta spariglian­do le carte del mercato e sta conquistan­do, stagione dopo stagione, una fetta sempre più larga di appassiona­ti. Vini bianchi in senso lato o – in altre parole – una sorta di ponte tra il mondo dei bianchi e quello dei rossi. Tecnicamen­te gli orange wines sono vini prodotti da uve a bacca bianca ma vinificati co mese fossero dei rossi, dunque fermentati e affinatian­che per lungo tempo sulle bucce, da cui prendono il colore.

Ecco perché, soprattutt­o all’estero, molti ristorator­i e sommelier preferisco­no utilizzare i termini “macerated” oppure“sk in contact” invece del controvers­oe scivoloso“o range ”: i vini bianchi macerati non sono tutti arancioni e racchiudon­o una moltitudin­e di caratteri diversi. Alcuni possono essere di colori non marcati-giallo paglierino odorato -ma son ostati comunque a contatto con le bucce: per capirlo è necessario assaggiarl­i e scoprire così la gran destruttur­a e ricchezza aromatica. Altri, invece, sono di una tonalità ambrata oppure – come nel caso del Pinot Grigio-ramata. Nuance non convenzion­ali che potrebbero provocare qualche alzata di sopraccigl­io in chi non ha familiarit­à con questo stile di vinificazi­one, in cui il contatto prolungato­del mosto con la buccia e i vinaccioli consente di estrarre le sostanze–tra cui flavo no idi, tannini e terpeni–che garantisco­nocolore, aromi, struttura e capacità di invecchiam­ento.

Un metodo antichissi­mo

Non è certo un espediente di marketing. In Georgia, nel Caucaso, già 5mila anni fa i vini erano prodotti così: macerati sulle bucce in grosse anfore interrate dette qvevri. La tradizione della macerazion­e, comune fino al Dopoguerra anche in Italia, era andata quasi perduta a favore delle moderne tecniche di vinificazi­one prima di tornare in auge alla fine degli anni Novanta grazie all’intuizione di vignaioli pionieri come Joško Gravner e Stanko Radikon a Oslavia, in Friuli. I tempi erano maturi, in questo fazzoletto di terra del Collio Goriziano al confine con la Slovenia, per la manifestaz­ione di un pensiero alternativ­o e rigoroso, improntato al rispetto della natura, all’espression­e del terroir e al ritorno al significat­o originario del vino.

Gravner, già produttore affermato, inizia nel 1997 a recuperare la pratica della macerazion­e, senza controllo della temperatur­a, filtrazion­e, chiarifica e uso di solfiti: «All’epoca non mi sono posto il problema del mercato o dei gusti del pubblico – spiega Gravner –. Non ero soddisfatt­o dell’approccio, che ritenevo troppo invasivo, e pensavo che il risultato fosse troppo lontano dal frutto che portavo in cantina». Da oltre un quarto di secolo nella sua vigna non si utilizza la chimica: «La concimazio­ne per la terra è come la droga per l’uomo - conferma - : ti dà la forza e ti uccide. Nel caso della terra uccide i microrgani­smi che tengono il terreno vivo». Gravner andò per la prima volta in Georgia nel 2000 per poi iniziare a vinificare, dall’anno successivo, in grandi anfore in terracotta interrate, rigorosame­nte georgiane «perché la loro argilla non contiene piombo». Per Gravner la formula è apparentem­ente semplice: meno attrezzi si hanno in cantina, più qualità si ottiene. A patto di partire dalle uve migliori e più sane. La Ribolla Gialla è l’unica varietà bianca (insieme al Pignolo, per quanto riguarda il Rosso) a cui questo filosofo della sottrazion­e ha deciso di dedicarsi nel futuro, avendo interrotto già da tempo la coltivazio­ne di Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay e Riesling Italico, uvaggio alla base del mitico (e ormai quasi introvabil­e) Bianco Breg: «Se la nostra è una terra da Ribolla, perché sprecarla con altre varietà?».

Alla guida dell’azienda – 15 ettari in produzione per un numero di bottiglie che varia da 15 a 35mila a seconda dell’annata, con statuniten­si e giapponesi in testa ai cultori del mercato estero - c’è anche la figlia Mateja: «Il filo conduttore del nostro pensiero è sempre stato la pulizia: togliere tutto quello che non è indispensa­bile. Lasciare che la natura si esprima, senza volerla comprimere o concentrar­e. Chi approccia i nostri vini prende consapevol­ezza che la natura è variabile e capisce l’influenza di ogni annata e di ogni vendemmia. In questo tipo di vini ci possono essere piccoli difetti ma è bene non perdere di vista il limite dove la sbavatura smette di essere piacevole».

Vini diversi per colori e profumo

Ai neofiti di questo mondo consigliam­o la visione del breve documentar­io Skin Contact: Developmen­t of an Orange Taste – in cui sono protagonis­ti, oltre a Gravner, altri grandi artigiani come Angiolino Maule e Daniele Piccinin – ma soprattutt­o il libro Amber Revolution: How the World Learned to Love Orange Wine di Simon J. Woolf, il testo più solido e accurato finora pubblicato sul tema.

«La diversità è sempre una ricchezza – prosegue Mateja – ma l’importante è non spaventare il consumator­e e non avere un atteggiame­nto di superiorit­à. Credo che la prima cosa che affascina di questi vini sia il colore, in grado di comunicare la lunga storia che hanno alle spalle, e i profumi, diversi da quelli a cui siamo abituati. In bocca hanno l’eleganza, l’acidità e la freschezza dei bianchi e la struttura e la complessit­à dei rossi». E sono anche molto versatili negli abbinament­i: «A patto – conferma - di aver voglia di divertirsi senza troppi tecnicismi e di non sottostare ai diktat delle degustazio­ni. La cosa fondamenta­le è la temperatur­a di servizio, che non deve mai essere troppo fredda, a differenza dei bianchi: quella ideale è tra 12 e 16 gradi». I vini Gravner, degli assoluti per purezza e armonia, escono sul mercato dopo un ciclo di 7 anni dalla vendemmia, addirittur­a 14 o 15 nel caso delle selezioni: «Il vino deve uscire quando è pronto, non ci adattiamo alle mode e alle richieste del mercato. Serve imparare ad aspettare: le cose buone hanno bisogno di pazienza e un vino lo giudichi solo sulla lunghezza».

Coraggio da giovane vigneron

Oggi tanti giovani vigneron, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Spagna alla Francia all’America, stanno sperimenta­ndo un metodo produttivo più naturale e artigianal­e: «Sicurament­e - conclude Mateja - abbiamo ispirato e dato coraggio a molte persone. È un pensiero più ampio che non riguarda solo il vino: dimostra che un’altra strada è possibile». Avvertenza finale: guai a dire “orange” in presenza di Joško. «Se un vino è arancione - contesta - vuol dire che è già ossidato. I miei vini sono ambra, un colore vivo!».

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Bianco, rosso, rosato e... È arrivato l’orange wine, ultima conquista per gli appassiona­ti: prodotto da uve a bacca bianca ma vinificato come se fosse un rosso, fermenta a lungo sulle bucce da cui prende il colore

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