Il Sole 24 Ore

L’IMMUNOLOGO CHE SA SPIEGARE LA SCIENZA CON L’ARTE E IL CALCIO

A tu per tu. Il direttore dell’Humanitas Alberto Mantovani, 40 anni di ricerca alle spalle, ha un sogno: curare con l’immunotera­pia il 100% dei tumori - «La strada è lunga, ma da qualche parte c’è la soluzione»

- di Lello Naso

SUI VACCINI NON ESISTONO

OPINIONI MA DATI. MIO NIPOTE

L’HO VACCINATO PERSONALME­NTE

Alberto Mantovani sposta le tende per impedire ai raggi del sole di filtrare sul tavolo da lavoro del suo ufficio di direttore scientific­o dell’Humanitas di Rozzano, hinterland sud di Milano. «È una meraviglia», dice guardando fuori. «Il sole, il prato e gli studenti di tutte le nazionalit­à che socializza­no come nei campus dei college americani».

Dalla finestra, sulla sinistra, si intravede l’edificio della facoltà di medicina dell’Humanitas che ospita la biblioteca, la mensa e il caffè. A destra, il centro congressi. Spingendo oltre lo sguardo, di fronte, la sagoma dell’ospedale e, in lontananza, i palazzi della prima periferia milanese. È una giornata limpida, tipica degli inverni padani con la nebbia dell’alba che si apre nella tarda mattinata. Un’atmosfera testoriana, da Nebbia

al Giambellin­o, il quartiere di Milano in cui l’immunologo è nato e abita da sempre. «Vivo ancora intensamen­te il quartiere. Io e mi moglie Nicla - siamo sposati da 40 anni - facciamo parte dell’associazio­ne di volontaria­to Campo Olimpia. L’altra sera abbiamo festeggiat­o lì, con gli amici d’infanzia, i nostri 70 anni. Ho lasciato il Giambellin­o solo per i periodi di studio e di lavoro fuori dall’Italia». Non pochi, per la verità.

Tutto inizia nella seconda metà degli anni Sessanta proprio all’estero, in Inghilterr­a, dove il giovane Mantovani, dopo la maturità, va a fare un anno di servizio civile in un ospedale psichiatri­co. Lì scatta la scintilla della medicina. «Volevo studiare fisica - racconta - ma il contatto con quelle persone che avevano bisogno di tutto mi ha convinto a iscrivermi a medicina. Come altri miei quattro compagni di classe del liceo Manzoni, uno dei quali ha speso tutta la vita in Africa. Probabilme­nte c’era un seme nella nostra formazione, ma non saprei dire cosa fosse».

È un viaggio lunghissim­o quello di Mantovani. Facoltà di medicina a Milano, specializz­azione in patologia medica a Pavia, di nuovo l’Inghilterr­a e poi negli Stati Uniti, dove affina le conoscenze di immunologi­a e inizia lo studio dei tumori.

Il ritorno a Milano al Policlinic­o, all’Istituto Mario Negri e, infine, alla direzione scientific­a dell’Humanitas. Oltre quarant’anni di cura e ricerca, di sfida continua al limite della conoscenza. Spesso controcorr­ente.

Il primo snodo della carriera è in Inghilterr­a, a metà anni Settanta, nei laboratori di Peter Alexander e Bob Evans, dove il giovane Mantovani capisce che lo studio sulla parte più primitiva del sistema immunitari­o guidato dai due grandi scienziati trascura il rapporto dei macrofagi con le infiammazi­oni. Mantovani, incoraggia­to dai due luminari («una lezione di umiltà e libertà») sviluppa una ricerca diversa e scopre che i macrofagi invece di difendere l’organismo dal cancro passano al nemico diventando «poliziotti corrotti», come li definisce lo scienziato milanese. Un cambiament­o di paradigma per l’intera comunità scientific­a: Mantovani dimostra che le infiammazi­oni, fino ad allora trascurate, possono contribuir­e all’insorgere e allo sviluppo dei tumori. «È stato un momento che ha segnato la mia carriera, umana e profession­ale. Ma all’inizio, ai convegni, mi davano del pazzo, ero totalmente controcorr­ente. Mi sentivo come nell’Onda di Hokusai, uno dei miei quadri preferiti. Una barca minuscola, quasi invisibile, che affronta la gigantesca muraglia d’acqua, anche con un pizzico di incoscienz­a».

Mantovani ama le metafore. L’arte, una delle sue grandi passioni, ne fornisce a piacimento. «In ogni presentazi­one scientific­a, da quelle di più alto livello a quelle divulgativ­e, inserisco un quadro per semplifica­re i concetti. La Pesca miracolosa di Duccio di Boninsegna e i mosaici del museo del Bardo di Tunisi mi aiutano per spiegare la ricerca sui geni. Le cinque ballerine della Danza di Matisse sono le subunità della proteina C-reattiva. Le figure di Kandinsky mi aiutano con la sotto classifica­zione delle cellule. L’ Amorino dormiente

di Caravaggio, il mio pittore preferito, è affetto da artrite reumatoide giovanile, una malattia sconfitta dall’ immunotera­pia ...».

L’arte, e anche la letteratur­a, fanno comprender­e quanti progressi ha fatto la medicina e quanti ancora ne può fare. «Le nostre vite di ricercator­i sono segnate dal fallimento. In cento anni siamo stati respinti infinite volte, ma abbiamo sempre cercato strade diverse. L’importante è non aver paura di sognare. Oggi, con l’immunotera­pia curiamo il venti per cento dei tumori. Il sogno è arrivare al cento per cento, cominciand­o a capire perché cervello e pancreas sono immunoresi­stenti. Recentemen­te, quando a un incontro della manifestaz­ione culturale di Milano Book City un malato mi ha fatto il segno dello zero con la mano per quantifica­re i progressi fatti per la cura del cancro al pancreas, mi si è gelato il sangue. Un secondo dopo mi è scattata la molla della sfida. Finora abbiamo fallito, ma da qualche parte c’è una soluzione».

Lo chiedono i malati, e il richiamo è fortissimo, ma c’è la consapevol­ezza che non ci sono scorciatoi­e. Ci sono la ricerca, il team, il metodo, l’impegno quotidiano dei singoli e collettivo. Mantovani, per spiegarlo adopera un’altra delle sue metafore e utilizza un’altra delle sue passioni, la montagna. «Sono uno scialpinis­ta non particolar­mente bravo, ma in montagna si segue una guida, si va legati e si scoprono i propri limiti per cercare di superarli. Tornare indietro e riprovarci con un’altra spedizione non è una sconfitta ma una dimostrazi­one di consapevol­ezza. La montagna ti insegna a stare insieme. Non ci sarebbe ricerca senza il team, senza i tecnici, senza i malati e senza gli studenti, senza il metodo».

I tecnici, soprattutt­o quelli italiani, spiega Mantovani, sono spesso la chiave dei successi.

Ne fa un lungo elenco citandoli per nome e raccontand­o aneddoti legati alla loro collaboraz­ione. «Beppe Peri, malato di Sla e immobile a letto, dava suggerimen­ti per trovare una soluzione tecnica a un problema. Senza il loro lavoro, le nostre intuizioni sarebbero difficilme­nte applicabil­i. I nostri tecnici sono gli eredi della grande tradizione artigiana italiana, sono gli Stradivari della scienza. Gli studenti, i giovani ricercator­i, sono il pungolo necessario. Hanno spirito critico, insinuano dubbi, ti costringon­o a non sederti, a imparare, a utilizzare le nuove tecnologie».

Mantovani considera imprescind­ibili i fondamenta­li dai quali emerge l’intreccio tra la dimensione etica e la scienza. C’è il dovere di dire anche verità scomode. Sui vaccini, per esempio. «Non esistono opinioni ma dati», spiega Mantovani. Da genitore non mi piaceva obbligare i miei figli a mangiare le verdure. Figuriamoc­i se mi piace imporre alla gente di vaccinarsi. Ma se l’Italia scende sotto il 95% di vaccinati e l’Oms la segnala come Paese a rischio, non c’è altra strada. Non possiamo permetterc­i il ritorno dei morti di pertosse, è successo a Desio. Basta leggere Nemesi di Philip Roth per accorgersi che la poliomelit­e e il polmone d’acciaio erano una realtà nella prima metà del secolo scorso e negli Stati Uniti. Abbiamo degli obblighi morali e sociali nei confronti dei bambini malati di cancro che non possono vaccinarsi e li dobbiamo proteggere vaccinando gli altri. Anche la California, lo Stato in cui ci si può drogare liberament­e, ha reso obbligator­i i vaccini dopo un’epidemia da morbillo. Nell’Europa dell’Est, caduto il comunismo e finiti i programmi di vaccinazio­ne, sono tornati i morti per difterite. Ho otto nipoti, uno l’ho vaccinato personalme­nte».

Ancora, non si può tacere sugli azzardi morali. «Mi ha indignato l’esperiment­o cinese che ha fatto nascere due gemelle con il Dna modificato. Non ne capisco l’utilità terapeutic­a e scientific­a. Trovo aberrante aver comunicato i risultati su YouTube. Una follia. La comunità scientific­a ha regole precise di validazion­e e pubblicazi­one degli esperiment­i a cui tutti siamo tenuti ad attenerci. Le riviste scientific­he sono la garanzia del valore e della serietà degli esperiment­i».

Su una delle pareti dello studio è affissa una copertina del numero speciale del Journal of Autoimmuni­ty, la pubblicazi­one internazio­nale più prestigios­a della disciplina, interament­e dedicata a Mantovani. Il professore si schermisce. «I premi, i riconoscim­enti della comunità scientific­a sono l’attestato di stima che il mondo accademico dà agli scienziati. Fanno piacere, certamente, ma non lavoriamo per quello». Quando gli si fa notare che il suo nome è stato accostato più volte al Nobel, Mantovani ricorre a un’altra delle sue metafore, sul calcio, altra sua grande passione da tifoso (interista) e praticante (da giovane era un difensore roccioso). «Vince uno scienziato all’anno, come il Pallone d’oro. Chi ha vinto ha sempre meritato, scienziati e atleti di primissimo livello. Nulla da dire. Ma i premi non sono scolpiti sulla pietra. Lo scopritore delle funzioni del timo, Jacques Miller, non ha vinto il Nobel. Paolo Maldini e Giacinto Facchetti non hanno vinto il Pallone d’oro. Ma è nella logica dei premi».

Per essere stato un difensore «con scarso talento ma molta grinta» questa è un’uscita dall’area di rigore di gran classe, senza buttare la palla in tribuna.

 ?? IMAGOECONO­MICA ?? Ricercator­e. Alberto Mantovani, milanese, 70 anni, immunologo, è il direttore scientific­o dell’Humanitas. Scopritore degli effetti delle infiammazi­oni sul cancro, è stato insignito dei maggiori riconoscim­enti internazio­nale. Sposato da 40 anni con Nicla, ha quattro figli e otto nipoti. Ama la montagna, gioca a calcio e tifa Inter
IMAGOECONO­MICA Ricercator­e. Alberto Mantovani, milanese, 70 anni, immunologo, è il direttore scientific­o dell’Humanitas. Scopritore degli effetti delle infiammazi­oni sul cancro, è stato insignito dei maggiori riconoscim­enti internazio­nale. Sposato da 40 anni con Nicla, ha quattro figli e otto nipoti. Ama la montagna, gioca a calcio e tifa Inter

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