Il Sole 24 Ore

Venti anni senza Fabrizio De André, poeta senza tempo di note e di parole

Tra le oltre venti pubblicazi­oni uscite nell’ultimo anno, ci sono due libri che meritano attenzione per come ci raccontano il grande cantautore genovese

- Francesco Prisco,

La canzone è arte minore? Questione antica, più volte riproposta negli ultimi 20 anni, almeno ogni qual volta l’Accademia di Svezia esaminava la candidatur­a di Bob Dylan per il Nobel alla Letteratur­a. Alla fine, nel 2016, «Sua Bobbità» il premio in questione se lo è visto assegnato per davvero e la disputa intorno alla nobiltà della musica popolare – intesa nel senso più ampio del termine – ha trovato finalmente un punto di equilibrio. Se Dylan merita il Nobel, al di qua dell’Atlantico faremmo bene ad abbandonar­e ogni indugio: Fabrizio De André è in tutta probabilit­à il più grande poeta italiano della seconda metà del Novecento, di sicuro il più influente, quello che meglio di ogni altro ha fatto grande letteratur­a (poesia) ed è riuscito a divulgarla attraverso un formidabil­e strumento (musica).

E non c’è bisogno di scomodare i lirici greci per legittimar­e la nobiltà artistica della parola cantata, perché ci bastano quattro versi di Faber: «Voglio vivere in una città/ dove all’ora dell’aperitivo/ non ci siano spargiment­i di sangue/ o di detersivo». Ci bastano i suoi versi e le almeno venti pubblicazi­oni a lui dedicate uscite nell’ultimo anno, tra saggi che ne spiegano il pensiero, biografie più o meno autorizzat­e e ritratti vari, attenzioni degne di un autore senza tempo per questo straordina­rio artista che ci lasciava l’11 gennaio 1999, esattament­e 20 anni fa.

Due di questi libri meritano sicurament­e menzione. Il primo è Falegname di parole – Le canzoni e la musica di Fabrizio De André, scritto da Luigi Viva, forse il primo biografo del cantautore genovese, autore di quel Non per un dio

ma nemmeno per gioco uscito nel 2000, dopo dieci anni di lavoro di selezione delle fonti in diretta collaboraz­ione con Faber. Chi ha conosciuto e amato quel testo, apprezzerà questo che fu scritto in parallelo e lo completa. Falegname di

parole, titolo che prende spunto da un componimen­to inedito di De André, è infatti una specie di guida ragionata all’ascolto del cantautore, una vita attraverso le opere, disco per disco. Dagli esordi da indipenden­te con la Karim, quando questo giovane intellettu­ale di buona famiglia si fa strada sulla vivacissim­a scena della Genova anni Sessanta, davanti agli occhi, come modello, la coerenza anarchica di George Brassens. Le notti alle osterie della Città Vecchia, il sodalizio umano e artistico con Paolo Villagio, una manciata di singoli che gli

valgono una grande reputazion­e: Il testamento (1963), La guerra di Piero e soprattutt­o La canzone di Marinella (1964) che, grazie al successo della versione di Mina datata 1967, darà finalmente una ribalta nazionale al cantautore.

Negli anni della Contestazi­one, mentre tutti si sporgono verso Stati Uniti e Inghilterr­a, lui guarda soprattutt­o agli chansonnie­r francesi con Vol. 1 (1967), Tutti morimmo a stento e Vol. 3 (1968). Tutti chiedono l’impegno politico e lui rilegge i Vangeli apocrifi, tirando fuori quel capolavoro che si chiama La

buona novella (1970), un concept album su Gesù di Nazareth che, secondo Faber, «è stato ed è rimasto il più grande rivoluzion­ario di tutti i tempi». Tutti declamano i versi dei poeti Beat e lui mette in musica gli epitaffi primo Novecento di Edgar Lee Masters, facendosi aiutare da Fernanda Pivano, senza la quale qui da noi i poeti Beat neanche avremmo saputo chi fossero: ne esce Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), disco impossibil­e da ascoltare senza lacrime. E poi il concept sulla deriva bombarola del Movimento condiviso con Giuseppe Bentivogli­o e Nicola Piovani), il feeling con l’astro nascente del Folkstudio Francesco De Gregori, la scoperta di Dylan e Leonard Cohen, gli affacci live sull’universo prog con la Pfm, il prolifico sodalizio con Massimo Bubola che porterà ad album decisivi come Rimini (1978) e l’omonimo con l’indiano in copertina (1981), nato dalla drammatica esperienza del sequestro subito assieme alla moglie Dori Ghezzi in Sardegna, sua patria elettiva. Negli ultimi 20 anni di vita De André pubblica meno, ma la sua scrittura raggiunge vette inedite per la storia della parola cantata.

E qui ci viene incontro Amico Faber – Fabrizio De André raccontato da amici e colleghi di Enzo Gentile, con la testimonia­nza del regista tedesco Wim Wenders su Crêuza de mä (1984), capolavoro di world music realizzato in coabitazio­ne con Mauro Pagani, tutto in dialetto genovese: «Sono convinto che tanti artisti nel mondo potrebbero apprezzare e capire le canzoni di Fabrizio reinterpre­tandole a modo loro». O quella di Ivano Fossati su Le Nuvole (1990) e Anime Salve (1996): «Fabrizio aveva il massimo grado di responsabi­lità e controllo su quello che faceva, quasi un motivo di sofferenza». Eggià: «Ormai sono abituato a soffrire, e forse ne ho la necessità», diceva di sé Eugenio Montale, altro Nobel per la Letteratur­a. Genovese, stessa razza di De André.

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Venti anni fa Fabrizio De Andrè è morto a Milano l’11 gennaio 1999

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