Il Sole 24 Ore

Rammendare il mondo scomparso di una sartina di fine Ottocento

- Stefano Biolchini

Di Aracne ha la maestria nel ricamo, di Filomela l’arte di veicolare messaggi con il cucito: è una sartina di fine Ottocento in cerca di riscatto in una società gretta e rigidament­e classista la protagonis­ta de Il sogno della macchina da cucire, edito da Bompiani. Bianca Pitzorno, romanziera prolifica per bambini e non solo, stavolta si è cimentata in un denso e acuto romanzo a tutto tondo che per tinte e pennellate veloci costituisc­e un vero affresco “preraffael­lita” su un mondo ormai scomparso. E fin dall’incipit il suo patto narrativo con il lettore è siglato con desueto nitore: «Ogni episodio prende spunto da un fatto realmente accaduto di cui sono venuta a conoscenza dai racconti di mia nonna, coetanea della protagonis­ta, dai giornali di allora, dalle lettere e cartoline che lei aveva conservato in una valigia».

Al centro delle vicende quale io narrante è «una sartina come quelle a giornata che, come spiega l’autrice, era presente in tutte le case borghesi fino ai tempi della mia prima adolescenz­a, tanto più nell’immediato dopoguerra, quando recuperare e riutilizza­re in altra forma abiti e tessuti già esistenti era obbligator­io per tutti». Poiché il tempo delle sartine è finito «scopo di questo libro è che non venga dimenticat­o per sempre». Così, orfana e povera la sartina del libro è educata “al mestiere sartoriale” da una nonna lungimiran­te, che, insegnatal­e la virtù dell’onestà e della discrezion­e, a soli sette anni la avvia alla medesima profession­e che con fatica lei stessa aveva esercitato presso le famiglie di una piccola città di provincia (in traluce la Sassari città natìa della scrittrice?) e che la emanciperà quale unica padrona di sé.

Nel tempo che trascorre tra un’imbastitur­a e un ricamo d’asola la piccola sarta ha modo di entare in contatto, e talvolta perfino in rispettosa confipiù denza, con le sue committent­i, che sono ricche borghesi, insegnanti americane, marchesine e potenti nobildonne. Mondi lontanissi­mi e socialment­e ben divisi e distinti (e in Sardegna ancor più, sempre che di città sarda si tratti!) si incontrano e confrontan­o al tavolo da stiro mentre la mano corre veloce sulla tela e le forbici tagliano e l’ago rammenda. Drammi familiari, disgrazie e gioie, lutti e tormenti, soprusi maschilist­i e miserie umane, debacle e ascese in società entrano così a far parte dello scenario ristretto di un’operaia del cucito. «Non erano tempi quelli che una moglie potesse lasciare senza conseguenz­e il tetto coniugale, e tantomeno che potesse tenere con sé il frutto legittimo del matrimonio».

La protagonis­ta si interroga, e con voce ingenua interroga il lettore, sui perché di un mondo che appare complicato da sovrastrut­ture e barriere. «Non riuscivo a capire. In altre occasioni si era dimostrata molto battaglier­a nel difendere la libertà e l’onore delle donne, il loro diritto a essere trattate con rispetto, specie quelle povere». Le relazioni al femminile scorrono per episodi e sono analizzate con la precisione del “punto ago”. «Ascoltami», disse la Miss gravemente. «Sei giovane e ti può capitare di innamorart­i. Ma non permettere mai che un uomo ti manchi di rispetto, che ti impedisca di fare quello che ti sembra giusto e necessario, quello che ti piace. La vita è tua, tua, ricordalo. Non hai alcun dovere se non verso te stessa».

Quello della Pitzorno è uno stile compassato e sobrio, che procede per giustappos­izioni paratattic­he prive di fronzoli. La trama s’annoda senza strappi e colorandos­i di molteplici aneddoti. Momenti tragici si alternano a scene di vita vissuta dagli esiti anche esilaranti. Su tutto a prevalere è la voglia femminile di riscatto sociale («temevo di fare brutta figura con le mie frasi sgrammatic­ate») cui fa da contraltar­e il senso del dovere e dei limiti quasi castali.«Avrei potuto fare un abbonament­o alla Stagione lirica, sempre in loggione naturalmen­te...»”. E ancora, «le donne del mio ceto non portavano il cappello, neppure le più benestanti e vanitose avrebbero osato». È un piccolo mondo antico quello delle sartine in cui la saggezza popolare non ammette esibizioni, e proprio per questo la lezione che se ne trae, in tempi in cui l’apparire è essere e la pudicizia perfino un disvalore, è quanto mai attuale. Ha ragione la Pitzorno, questo libro andava scritto. E va letto. Che poi il messaggio trovi accoglienz­a o resti solo il bel canto d’usignolo della figlia di Pandione è tutta un’altra storia, ma questo al romanzo non si può chiedere. Sarebbe solo un’inutile impuntura di critica.

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Cucire a mano August Macke, «Elisabeth Gerhardt Sewing», 1909

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