L’italiano senza fronzoli della crocerossina al fronte
Da alcuni anni ormai la linguista Rita Fresu va componendo, in una serie di studi dedicati ad epoche e ambienti molto vari, un capitolo della storia della lingua italiana che prima o poi andrà raccontato in piena autonomia e col respiro che merita: quello che riguarda l’italiano scritto dalle donne. È un àmbito popolato di monache (per molti secoli, le suore sono state quasi le uniche donne a saper leggere e a voler scrivere) e di qualche strega (celeberrimo il caso della sventurata sabina Bellezze Orsini, autrice di un toccante memoriale primo cinquecentesco ). Ma anche divari e scrittrici, e di interi filoni di produzione specifica, come letteratura educativa moderna rivolta alle ragazze. Tutti temi già trattati, almeno in parte, dalla studiosa, che rientrano in un filone sempre più ramificato di ricerche, ovviamente non solo italiano. Nel suo ultimo libro, scritto assieme a Barbara Cappai, Fresu ha affrontato un aspetto tra i meno noti della letteratura della Grande guerra, osservando con la lente della storia della lingua il diario di quella che di fatto è la fondatrice delle crocerossine italiane, Sita Meyer Camperio. Quando si pensa alle scritture dal fronte della Prima guerra mondiale, vengono alla mente da un lato le grandi pagine della letteratura nate da quell’esperienza, e da un altro le ben più umili pagine della scrittura epistolare, cioè quelle lettere di soldati, combattenti o prigionieri, che già da molti decenni sono un banco di prova per lo studio della scrittura di quelli che oggi chiamiamo semicolti o semiletterati: è la gente poco istruita di quei tempi (quella d’oggi di solito ruggisce davanti a una tastiera), che quando scrive lo fa per necessità e di solito con difficoltà, affrontando la pagina bianca per il desiderio di dialogare a distanza con parenti e persone amate da cui la grande tragedia della guerra teneva lontani.
Inutile dire che la maggior parte della documentazione anche non letteraria lasciata in eredità dalla Guerra è costituita da testi scritti da maschi. Soldati, di solito. E quasi inutile aggiungere che le uniche donne che finora avevano suscitato qualche interesse per la loro scrittura – anche in questo frangente storico – sono quelle che manovrano a loro volta la scrittura con incertezza e quasi obtorto collo: cioè le corrispondenti dei soldati. Meritava dunque di essere esplorato un territorio poco noto: quello di una presenza femminile colta, avvertita e socio-culturalmente superiore alla maggior parte dei combattenti, che il primo conflitto mondiale rende tristemente assidua in zona d’operazioni. Sono appunto le crocerossine: donne dell’alta borghesia, se non addirittura della nobiltà, votate all’assistenza per ragioni di solito patriottiche, spesso corroborate da convinzioni ideologiche. L’interventismo si sposò spesso in quegli anni – come ricorda Fresu – con femminismo e suffragismo di chi riteneva che la guerra avrebbe scosso la società favorendo l’emancipazione. Le pagine di Sita Camperio – milanese, con studi alla Normale e diploma al conservatorio, sposata a uno svizzero Meyer – sono un vero diario di guerra, molto più asciutto e severo di quelli di tanti tenentini, scritto da una persona colta e determinata che deve far di continuo i conti con pregiudizi e remore dei maschi, spesso poco propensi ad accettare la presenza di donne sul fronte, e con l’esitante appoggio di donne influenti, come la Duchessa d’Aosta. Le pagine di Fresu sono interessate soprattutto alla sua posizione nel cammino che porta l’italiano ad essere lingua comune durante la prima fase dello Stato unitario, nonché a un confronto tra le scelte linguistiche di Sita – il cui diario verrà pubblicato negli anni Trenta – e quelle di altre crocerossine meno note, ma tutte di alta levatura culturale e, di solito, di buona capacità scrittoria. È una scrittura senza fronzoli, senza trine e pizzi, che non chiede d’essere ammirata e – di solito – non s’aspetta nemmeno d’essere resa pubblica. In quest’ambito della produzione femminile, antenata di quella di certi grandi reportage firmati da giornaliste delle generazioni successive, l’eleganza è sobria.