Le riforme bancarie? Sono insufficienti
Le regole post crisi non hanno reso il sistema più robusto
Dieci anni fa abbiamo scoperto che il sistema finanziario globale che molti (incluse ahinoi le autorità di vigilanza) credevano solido e sicuro, rischiava di implodere come una centrale nucleare impazzita. I governi di tutti i Paesi sono immediatamente corsi ai ripari e, dopo aver salvato le banche a spese dei contribuenti, hanno modificato completamente il quadro regolamentare, nell’intento di rafforzare la stabilità delle singole banche e ridurre al minimo il rischio di crisi di instabilità così devastanti.
Missione compiuta? Non esattamente, ci dice fin dal titolo Angelo Baglioni in questo bel libro sulle regole del dopo crisi. I legislatori si sono certamente chiesti quali erano i principali punti di debolezza del sistema finanziario e per ciascuno hanno varato in tempi rapidi una vasta serie di riforme: dall’insufficienza del capitale bancario, alla remunerazione dei dirigenti, alla mancanza di una vigilanza unitaria a livello europeo. Sul piano puramente quantitativo, nessuno potrebbe criticare quanto è stato fatto. Basti pensare che solo per quanto riguarda il patrimonio, le grandi banche globali hanno emesso azioni per quasi un trilione e mezzo di dollari.
Ma Baglioni ci fa capire che questo non basta per rendere il sistema bancario internazionale più robusto. Ciascuna delle grandi categorie di riforme, sottoposte ad un’analisi minuziosa, indipendente e teoricamente solida (che sono le qualità fondamentali di questo autore) mostra alla fine di avere qualche lato debole (i buchi nella rete, appunto) che può domani condurre a situazioni non meno drammatiche di dieci anni fa.
L’analisi è particolarmente critica nei confronti delle norme in materia di adeguatezza del capitale bancario, quindi della costruzione di Basilea che dagli anni Ottanta del secolo scorso è il pilastro fondamentale della regolamentazione prudenziale. Seguendo un’impostazione ancora minoritaria, ma condivisa da molti autorevoli studiosi, Baglioni dimostra che il quadro di regole del capitale è diventato sempre più sofisticato, complesso e quindi aggirabile. Soprattutto da quando ha autorizzato le banche ad utilizzare i propri modelli interni ha di fatto consegnato ai regolati la chiave del meccanismo di regolazione rendendo il sistema manipolabile come dice esplicitamente l’autore e, va aggiunto, ha premiato l’attività finanziaria di carattere speculativo rispetto al credito all’economia produttiva. Da Basilea 2 in poi il gioco delle grandi banche globali è stato quello di ridurre il totale attivo ponderato per il rischio (cioè quello su cui si calcola il requisito di capitale) rispetto a quello contabile. Il risultato è stato che esse hanno potuto aumentare a dismisura le dimensioni senza pagare dazio in termini patrimoniali, solo perché i misteri gloriosi dei modelli interni conducevano a risultati eccezionalmente favorevoli: miliardi e talvolta un trilione di dollari di attività a rischio zero e rendimento positivo. È solo un esempio, ma se si pensa che la riforma dopo-crisi ha affrontato il problema ma ne ha rinviato la soluzione a tempi futuri, si capisce il pessimismo che anima l’analisi di Baglioni.
Il fatto è che le riforme sembrano essere state pensate cercando di individuare ogni singola falla del sistema e proponendo per ciascuna una singola medicina. Il modo classico di procedere di una terapia sintomatica, che raramente aggredisce il male alla radice. I riformatori del XXI secolo non hanno cioè imitato i loro predecessori degli anni Trenta. Questi ultimi si erano chiesti non solo quali erano le cause della crisi, ma anche qual era il tipo di sistema bancario ideale in quelle condizioni storiche per sostenere lo sviluppo e gli investimenti e tutelare il risparmio dei cittadini. Ne derivarono riforme di ampio respiro che hanno sorretto lo sviluppo dei vari Paesi per i primi decenni del secondo dopoguerra. Basti pensare alla legge bancaria americana che con tre provvedimenti tanto radicali quanto semplici nell’impianto, separò la banca ordinaria da quella di investimento, varò una legge di tutela dei risparmiatori (creando fra l’altro la Sec) e disciplinò i fondi comuni di investimento controllando severamente i conflitti di interesse. Oppure alla legge bancaria italiana del 1936l (contraltare della costituzione dell’Iri) che mirava a favorire l’afflusso di capitali a lungo termine all’industria e agli investimenti in un Paese povero di capitali e colpito dalla grave crisi dell’impresa e della finanza private. Altri tempi, si dirà, ma anche altri riformatori: nessuno ha mai detto che quelle reti erano pieni di buchi. Hanno naturalmente subito l’usura del tempo e sono state mandate in soffitta, anche sotto l’onda di un entusiasmo per la capacità dei mercati di autoregolarsi che si è dimostrato totalmente infondato. Ma la strada per una vera riforma che renda il sistema bancario meno esposto alle crisi e più vicino agli interessi della crescita di lungo periodo è ancora lunga.