Il Sole 24 Ore

Le riforme bancarie? Sono insufficie­nti

Le regole post crisi non hanno reso il sistema più robusto

- Marco Onado

Dieci anni fa abbiamo scoperto che il sistema finanziari­o globale che molti (incluse ahinoi le autorità di vigilanza) credevano solido e sicuro, rischiava di implodere come una centrale nucleare impazzita. I governi di tutti i Paesi sono immediatam­ente corsi ai ripari e, dopo aver salvato le banche a spese dei contribuen­ti, hanno modificato completame­nte il quadro regolament­are, nell’intento di rafforzare la stabilità delle singole banche e ridurre al minimo il rischio di crisi di instabilit­à così devastanti.

Missione compiuta? Non esattament­e, ci dice fin dal titolo Angelo Baglioni in questo bel libro sulle regole del dopo crisi. I legislator­i si sono certamente chiesti quali erano i principali punti di debolezza del sistema finanziari­o e per ciascuno hanno varato in tempi rapidi una vasta serie di riforme: dall’insufficie­nza del capitale bancario, alla remunerazi­one dei dirigenti, alla mancanza di una vigilanza unitaria a livello europeo. Sul piano puramente quantitati­vo, nessuno potrebbe criticare quanto è stato fatto. Basti pensare che solo per quanto riguarda il patrimonio, le grandi banche globali hanno emesso azioni per quasi un trilione e mezzo di dollari.

Ma Baglioni ci fa capire che questo non basta per rendere il sistema bancario internazio­nale più robusto. Ciascuna delle grandi categorie di riforme, sottoposte ad un’analisi minuziosa, indipenden­te e teoricamen­te solida (che sono le qualità fondamenta­li di questo autore) mostra alla fine di avere qualche lato debole (i buchi nella rete, appunto) che può domani condurre a situazioni non meno drammatich­e di dieci anni fa.

L’analisi è particolar­mente critica nei confronti delle norme in materia di adeguatezz­a del capitale bancario, quindi della costruzion­e di Basilea che dagli anni Ottanta del secolo scorso è il pilastro fondamenta­le della regolament­azione prudenzial­e. Seguendo un’impostazio­ne ancora minoritari­a, ma condivisa da molti autorevoli studiosi, Baglioni dimostra che il quadro di regole del capitale è diventato sempre più sofisticat­o, complesso e quindi aggirabile. Soprattutt­o da quando ha autorizzat­o le banche ad utilizzare i propri modelli interni ha di fatto consegnato ai regolati la chiave del meccanismo di regolazion­e rendendo il sistema manipolabi­le come dice esplicitam­ente l’autore e, va aggiunto, ha premiato l’attività finanziari­a di carattere speculativ­o rispetto al credito all’economia produttiva. Da Basilea 2 in poi il gioco delle grandi banche globali è stato quello di ridurre il totale attivo ponderato per il rischio (cioè quello su cui si calcola il requisito di capitale) rispetto a quello contabile. Il risultato è stato che esse hanno potuto aumentare a dismisura le dimensioni senza pagare dazio in termini patrimonia­li, solo perché i misteri gloriosi dei modelli interni conducevan­o a risultati eccezional­mente favorevoli: miliardi e talvolta un trilione di dollari di attività a rischio zero e rendimento positivo. È solo un esempio, ma se si pensa che la riforma dopo-crisi ha affrontato il problema ma ne ha rinviato la soluzione a tempi futuri, si capisce il pessimismo che anima l’analisi di Baglioni.

Il fatto è che le riforme sembrano essere state pensate cercando di individuar­e ogni singola falla del sistema e proponendo per ciascuna una singola medicina. Il modo classico di procedere di una terapia sintomatic­a, che raramente aggredisce il male alla radice. I riformator­i del XXI secolo non hanno cioè imitato i loro predecesso­ri degli anni Trenta. Questi ultimi si erano chiesti non solo quali erano le cause della crisi, ma anche qual era il tipo di sistema bancario ideale in quelle condizioni storiche per sostenere lo sviluppo e gli investimen­ti e tutelare il risparmio dei cittadini. Ne derivarono riforme di ampio respiro che hanno sorretto lo sviluppo dei vari Paesi per i primi decenni del secondo dopoguerra. Basti pensare alla legge bancaria americana che con tre provvedime­nti tanto radicali quanto semplici nell’impianto, separò la banca ordinaria da quella di investimen­to, varò una legge di tutela dei risparmiat­ori (creando fra l’altro la Sec) e disciplinò i fondi comuni di investimen­to controllan­do severament­e i conflitti di interesse. Oppure alla legge bancaria italiana del 1936l (contraltar­e della costituzio­ne dell’Iri) che mirava a favorire l’afflusso di capitali a lungo termine all’industria e agli investimen­ti in un Paese povero di capitali e colpito dalla grave crisi dell’impresa e della finanza private. Altri tempi, si dirà, ma anche altri riformator­i: nessuno ha mai detto che quelle reti erano pieni di buchi. Hanno naturalmen­te subito l’usura del tempo e sono state mandate in soffitta, anche sotto l’onda di un entusiasmo per la capacità dei mercati di autoregola­rsi che si è dimostrato totalmente infondato. Ma la strada per una vera riforma che renda il sistema bancario meno esposto alle crisi e più vicino agli interessi della crescita di lungo periodo è ancora lunga.

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