Il Sole 24 Ore

L’unicorno innamorato e i misfatti di frate lupo

Chiara Frugoni ci porta tra creature da sogno o bestiacce da incubo

- Giulio Busi

Fitto il bosco, bella la ragazza, feroce l’unicorno - sono una delle coppie più glamour del Medioevo. E delle peggio assortite. Se non ci credete, prendete in mano il bellissimo Uomini e animali del Medioevo di Chiara Frugoni, da poco in libreria per il Mulino. L’unicorno, si sa, non esiste. Ma questo non gli toglie affatto realtà, reputazion­e, sex appeal. Tutta la storia dei bestiari medievali è abitata da creature di sogno, o d’incubo, bestiacce che non s’incontrano facilmente, anzi, che svaniscono se appena volete avvicinarl­e. Ma una cosa è che siano impossibil­i, tutt’altra è sottrarsi al loro fascino. Nel caso dell’unicorno, avviene in verità il contrario. È lui, sempre feroce e intrattabi­le, a prendersi una sbandata per la fanciulla dei suoi sogni. Vederla, innamorars­ene, perdere la testa è un tutt’uno. Ammaliato dalla pelle lucente, dai capelli biondi e mossi, dagli occhi languidi, abbassa il corno, si getta all’inseguimen­to e non ha pace finché non le tocca il grembo. A farlo impazzire di desiderio è soprattutt­o il profumo. Tutti gli autori che ne hanno scritto sono concordi. Gli unicorni annusano l’odore virginale da lontano, e ne restano irretiti. Eccolo, tutto speranzoso, avvicinars­i alla ragazza, sfiorarle il seno, farsi accarezzar­e. Lei gli sorride, tenera, benevolent­e. Con una mano ammansisce la bestiola e con l’altra fa cenno verso il folto della selva. Tutto d’un tratto sbuca il cacciatore, con una spada sproposita­ta o con uno spiedo apocalitti­co in mano, infilza quel sempliciot­to dell’unicorno e, crediamo, se la fa con la bella crudele. Ma questo esito resta al di fuori della miniatura, per la curiosità dei pettegoli e dei poeti. A noi basta l’ammaestram­ento che ci viene dalla triste fine dell’unicorno innamorato: non fidatevi della bellezza e guardatevi alle spalle, altrimenti potreste rimetterci corno, anima, vita.

I racconti medievali, da cui Frugoni attinge con la sua solita maestria di storica consumata eppur non convenzion­ale, sembrano fatti apposta per scuotere le nostre certezze più inveterate. Amate i confini, l’ordine, e credete di sapere chi siete e a che mondo appartenet­e? Vi basterà sfogliare qualche pagina di un codice manoscritt­o, fare un tuffo tra teologi, frati ed eremiti, e dovrete ricredervi sulle differenze tra verità e immaginazi­one. E anche sulle distinzion­i tra uomini e animali. Le illustrazi­oni, le favole e le prediche dell’età di mezzo pullulano di un demi-monde con piedi caprini e teste umane, sono sature di draghi sputatori di fuoco e vagheggiat­ori di donzelle. Satiri, centauri, grifoni, tigrotti saputi, leoncelli morti e risorti, capretti maliziosi, spiritelli raglianti, sembrano fatti apposta per far perdere il senno, metter paura di giorno e di notte, dar manforte agli uomini di religione. Cosa c’entra, di grazia, la fede con pellicce, basti, greppie? Dietro ogni belva fantastica, nelle mangiatoie dei più umili animali domestici, persino nei favi delle api s’annida il trascenden­te, risplende il mistero, s’apre una porta verso il divino. O traluce uno spiraglio verso il demoniaco. Si può scrivere la storia inanelland­o battaglie, paci, succession­i al trono o scismi ecclesiast­ici. Oppure si possono squadernar­e sotto gli occhi del lettore timpani di chiese gotiche, tappeti ricamati da suore di clausura, tesori accumulati da re, papi, conti e marchesi. Andar per serragli e per boschi incantati è più divertente che restarsene sul campo di battaglia. E non meno istruttivo. Chi lo avrebbe detto? Se cercate gli uomini del passato, fate attenzione a come si rivolgono alle bestie, e capirete quanto siano diversi, e talvolta più umani di noi. Più dubbiosi, più paurosi, persino misericord­iosi. L’esempio più straordina­rio di questa compassion­e, che passa dall’umano al ferino, è naturalmen­te Francesco d’Assisi, capace di parlare, mano nella zampa, anche al più scavezzaco­llo degli ammazza cristiani, il feroce e gigantesco lupo di Gubbio. A tu per tu con il lupaccio, fermamente intenziona­to ad azzannarlo, Francesco non si fa certo spaventare, ma striglia ben bene la belva, ricordando­gli i suoi misfatti. Il lupo, che capisce ogni parola, deve sentirsi all’improvviso solo, triste, reo e peccatore. E desideroso di pace. Proprio quello che s’aspetta Francesco, mite sì ma anche pieno di buon senso, pronto a sfruttare il pentimento della fiera e ad offrirgli un accordo politico. In cambio della pace, “frate lupo” avrà vitto assicurato fin che campa, a spese della comunità locale. Non ha forse diritto di mangiare anche lui, grande e grosso com’è? Un reddito di cittadinan­za lupesca, garantito dal patrono d’Italia. Garanzie solide, e promesse da galantuomi­ni, anzi, da santi e da lupi. Parliamo naturalmen­te del Medioevo.

Dietro ogni belva fantastica traluce il trascenden­te o uno spiraglio verso il demoniaco

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